La 59/a Biennale internazionale d’arte (oggi apertura al pubblico fino al 27 novembre, la più lunga di sempre), abitata da molte presenze aliene, ha voluto raccontare altri mondi e non poteva finire altrimenti che premiando soprattutto le «prime volte». È così che alcuni paesi colonizzanti hanno assunto il punto di vista di chi, nella storia dei vincitori, ha indicato cruente fratture di civiltà e percorso una narrazione parallela, tendenzialmente messa a tacere. L’arte black si prende tutta la scena – il Leone d’oro a Simone Leigh, afroamericana a rappresentare gli Stati uniti con le sue grandi madri e la capanna ad avvolgere il padiglione, Sonia Boyce, esordio pure per lei, donna e nera, in Gran Bretagna, oppure l’Uganda, padiglione new entry in Laguna – mentre con un immaginario non allineato, l’Algeria (ancora una prima volta) «invade» la Francia attravero il magnifico progetto di Zineb Sedira, I sogni non hanno titoli.

Certo, alcuni premi hanno un gusto molto «anglosassone» perché quella è la cultura di appartenenza delle artiste e della loro circolazione nei musei e gallerie che contano. Ma alla Biennale fra le «costellazioni» rimaste fuori cornice per secoli, una in particolare ritrova la sua forma, mescolando visioni futuribili e sapienza antica: è quella delle popolazioni rom con cui l’artista e filmmaker Loukia Alavanou catapulta il pubblico in una Grecia non da cartolina turistica (curiosamente, anche la Polonia si affida a loro per una rivisitazione degli affreschi di Palazzo Schifanoia in chiave, appunto, rom).

Nel padiglione greco, al buio, indossando i visori della realtà virtuale si finisce prima in una gabbia con avvoltoi, poi in mezzo a una comunità mal sopportata, diventando spettatori di un Oedipus in Search of Colonus poetico, crudo e, a tratti, surreale.

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La sua versione di questa tragedia di Edipo è stata girata nello slum di Nea Zoi ad Aspropyrgos, a ovest di Atene, dove oggi vive una comunità rom. Come ha scelto il luogo e perché proprio quel testo?
La comunità rom si è trasferita qui negli anni ’80 da Tebe, come Edipo, che veniva anche lui dalla stessa città. E in realtà si presume che il percorso intrapreso da Edipo – da Tebe a Colono – sia passato attraverso un luogo preciso, Nea Zoi. Trovo interessante anche il suo significato, «nuova vita». La tragedia di Sofocle mi aveva colpito per più motivi. Innanzitutto perché racconta la vecchiaia e poi, avendola io letta prima della pandemia, le suggestioni sono state confermate dall’esperienza di solitudine che abbiamo tutti provato. Infine, nel testo c’è un impegno comunicativo: Sofocle cerca di presentare Edipo come un uomo innocente che tenta di dire la verità. È in qualche modo una specie di soggetto kafkiano, desideroso di trasmettere un messaggio che però non viene ascoltato. Ho immaginato Edipo come un eroe contemporaneo, un esiliato. Inoltre, ho notato un parallelismo tra Edipo in cerca di un posto dove il suo corpo potesse essere sepolto e ciò che accade inquesti nostri tempi nel Mar Egeo, con così tanti migranti dispersi, corpi senza più vita trascinati a riva… Sofocle ha toccato molte mie corde.

Qual è il suo rapporto con i classici greci? Pensa che le questioni che affrontano siano «aperte» ancora oggi?
In questa pièce in particolare (Edipo a Colono, ndr) sono poste questioni urgenti, che si integrano perfettamente con la nostra oscura realtà odierna. Nel testo originale, Sofocle parla di Colono come di un luogo stretto nella morsa di una difficile crisi. Emotivamente, si sentiva vicino, anche se Atene era la sua patria. Penso che ci siano molte affinità con la situazione attuale. Diverse città nel mondo sono a rischio, c’è un gran caos e profughi in giro per il mondo che desiderano un posto dove poter essere ospitati, proprio come Edipo.

Che tipo di città ha costruito all’interno del padiglione greco? L’architettura cerca di connettere le persone bandendo l’isolamento?
Sei in uno spazio comune e tuttavia hai un’esperienza di visione solitaria: è questa la tensione su cui gioca la mia mostra. L’interno del padiglione si basa sulle idee di un utopico architetto greco degli anni ’60, Takis Zenetos. È molto sottovalutato, ha avuto una vita tragica – si è suicidato – ma aveva realizzato un’opera incredibile, anticipando i tempi. Lui aveva immaginato una specie di città elettronica – una sorta di colonia di nuvole: è un’immagine così bella a cui rivolgersi oggi e, in fondo, riecheggia anche il modo della cultura rom nel rapportarsi alla materialità, differente da come siamo abituati . Era un preveggente, aveva anticipato il nostro stile di vita: ci ostiniamo a comunicare solo attraverso le «bolle» con il filtro dei social media, accomodandoci nel nostro «meta universo». Zenetos aveva già immaginato allora queste capsule e aveva creato un modellino di quelle colonie di nubi. In quella sua urbanistica futuribile, gli esseri umani si relazionavano tra di loro stando seduti su una sedia (che aveva disegnato lui) con zampe di uccelli. Su questa sedia, diceva, le persone avrebbero potuto fare tutto e niente allo stesso tempo, sarebbero potute essere ovunque e da nessuna parte.