Dopo 18 giorni di proteste, cinque morti, 313 feriti e 147 persone arrestate, la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador e il governo di Guillermo Lasso hanno finalmente trovato un accordo. E se al movimento indigeno è mancata la goleada – non tutto quello che chiedeva ha ottenuto – non c’è dubbio che si tratti comunque di una vittoria.

«SOLO LA LOTTA ci ha permesso di avanzare nella nostra agenda di dieci punti, strappando misure per migliorare le condizioni economiche delle famiglie più vulnerabili», ha dichiarato la Conaie, annunciando la fine del “paro nacional” e il ritorno degli indigeni alle rispettive comunità.
Firmato, da parte governativa, dal ministro del governo e della gestione politica interna Francisco Jiménez e dal segretario dell’amministrazione pubblica Iván Correa e, da parte indigena, dal presidente della Conaie Leonidas Iza (ma non prima di aver consultato tutte le istanze dell’organizzazione), l’accordo prevede in primo luogo la riduzione di 15 centesimi di dollaro per gallone – contro i 40 richiesti dai manifestanti – delle tre benzine più consumate nel paese (diesel, extra ed ecopaís). Ma contempla anche l’abrogazione del decreto 95 sugli idrocarburi, destinato a raddoppiare la produzione petrolifera e a promuovere una maggiore partecipazione del settore privato; la riforma del decreto 195 sull’attività mineraria, con conseguente divieto di sfruttamento in aree protette o territori ancestrali; la creazione di un tavolo negoziale finalizzato a sciogliere i nodi rimasti e a monitorare, nell’arco di 90 giorni, il rispetto degli impegni.

DECISIVA, per il raggiungimento dell’accordo, la mediazione dell’episcopato ecuadoriano, che è riuscito nell’impresa di riallacciare i rapporti tra le parti, dopo la rottura unilaterale del dialogo da parte del presidente, martedì scorso, in seguito alla morte di un soldato, José Chimarro, durante uno scontro tra le forze armate e settori mobilitati nella provincia de Sucumbíos, nell’Amazzonia ecuadoriana. «Il governo non può dialogare con chi intende sequestrare la pace degli ecuadoriani», aveva tuonato Lasso, escludendo la possibilità di riprendere i negoziati con Leonidas Iza, accusato di difendere «solo i propri interessi e non quelli delle basi». Ma non meno dura era stata la risposta del leader del settore amazzonico della Conaie Marlon Vargas: «Se oggi non troviamo una soluzione, sarà il caos e l’unico responsabile sarà il governo nazionale». Un avvertimento evidentemente sufficiente a far tornare il presidente al tavolo delle trattative.

Se la Conaie ha vinto, malgrado alcuni settori dell’organizzazione abbiano a lungo resistito prima di accettare l’accordo, non si può però neppure dire che il presidente Lasso sia uscito sconfitto. «Abbiamo recuperato il valore supremo a cui tutti aspiriamo: la pace nel nostro paese», ha potuto infatti dichiarare su Twitter, invitando ad avviare «insieme il compito di trasformare questa pace in progresso, benessere e opportunità per tutti».

MA SOPRATTUTTO, Lasso può tirare un sospiro di sollievo per il fallito tentativo, da parte dell’Unión por la esperanza (Unes) fedele all’ex presidente Rafael Correa, di rimuoverlo dall’incarico sulla base dell’articolo 130 della Costituzione, che ammette la destituzione presidenziale in caso di «grave crisi politica» e di «disordini interni»: solo 81 i voti a favore della mozione di impeachment – 11 in meno di quelli necessari –, a fronte di 42 contro e 14 astensioni. Un’iniziativa, quella promossa dalla Unes, che aveva suscitato polemiche anche all’interno di Pachakutik, il braccio politico della Conaie che inizialmente si era detto contrario all’ipotesi di destituire il presidente, per poi votare a favore (benché non in maniera compatta).

Se il coordinatore nazionale Marlon Santi aveva infatti invitato i parlamentari ad appoggiare la proposta del correismo di fronte alla violenta repressione del governo e al suo rifiuto di dialogare con gli indigeni, il capogruppo Salvador Quishpe aveva invece messo in guardia dal rischio che il correismo potesse «approfittare di questa lotta» per «tornare al potere e riprendere gli orrori commessi quando era al governo». Una posizione da cui emerge il risentimento ancora molto radicato all’interno del movimento indigeno nei confronti di Correa, le cui politiche estrattiviste avevano provocato, nel 2012 e nel 2015, massicce mobilitazioni di protesta da parte della Conaie, con conseguente criminalizzazione di oltre 200 leader indigeni e dirigenti sociali.

AL RIGUARDO, in ogni caso, Iza si era mantenuto prudente: in assenza di risposte alle dieci richieste avanzate dalla Conaie, aveva spiegato, «è meglio che il governo cada, ma non era questo il nostro obiettivo; noi siamo venuti per i dieci punti». E la firma dell’accordo, almeno per il momento, gli ha dato ragione.