Ece Temelkuran: «Perché la mia Turchia è un modello per la destra populista»
L'intervista Parla la giornalista e scrittrice che ha pubblicato «Come sfasciare un paese in sette mosse» (Bollati Boringhieri) «In Occidente si continua a ripetere che "i turchi sono musulmani, quindi perché stupirsi". Invece dopo Erdogan sono arrivati Orbán, la Brexit, Trump. Ora nessuno è più al riparo»
L'intervista Parla la giornalista e scrittrice che ha pubblicato «Come sfasciare un paese in sette mosse» (Bollati Boringhieri) «In Occidente si continua a ripetere che "i turchi sono musulmani, quindi perché stupirsi". Invece dopo Erdogan sono arrivati Orbán, la Brexit, Trump. Ora nessuno è più al riparo»
Se le chiedete come vive il suo esilio volontario dalla Turchia, si è stabilita a Zagabria da qualche tempo, risponde che non si sente poi troppo diversa da quei «cittadini britannici che a Londra fanno la fila davanti alle ambasciate europee per ottenere un passaporto della Ue prima che la Brexit entri effettivamente in vigore». Poi , dopo una breve pausa, aggiunge: «Del resto come dovremmo chiamare gli italiani che, a causa della minaccia rappresentata da Salvini si sentono sempre meno a casa nel loro paese? Sono un’esiliata, ma come tanti europei e americani che stanno subendo il clima politico oscurantista che monta nei loro paesi e che oggi cominciano a capire come la loro situazione non sia poi troppo diversa da quella del popolo turco».
Giornalista. scrittrice, commentatrice politica, Ece Temelkuran ha lavorato per alcune delle più importanti testate e reti televisive turche prima di iniziare a collaborare con i media internazionali: dalla Cnn al Guardian e al New York Times. È anche autrice di romanzi e raccolte di racconti; nel nostro paese è uscito lo scorso anno Turchia folle e malinconica (Spider&Fish) che ricostruisce in una sorta di memoir la storia del Paese.
Le sue ripetute denunce nei confronti del regime di Erdogan e del nazionalismo turco – che hanno riguardato i massacri perpetrati contro la popolazione curda durante il conflitto siriano, la repressione selvaggia nei confronti dei giovani di Gezi Park, come la negazione del genocidio armeno – l’hanno condotta nel 2011 al licenziamento dal quotidiano Habertürk e a diventare, al pari di molti altri giornalisti e intellettuali, oggetto di minacce e pressioni che l’hanno spinta a lasciare la Turchia.
Temelkuran ha così trasformato la battaglia per la libertà nel suo paese in un messaggio rivolto all’opinione pubblica internazionale, in particolare laddove si annuncino all’orizzonte ombre scure come quelle che hanno condotto il partito-Stato Akp a trasformare la sua egemonia sulla società turca in un’autentica prospettiva dittatoriale. Con Come sfasciare un paese in sette mosse (Bollati Boringhieri, pp. 208, euro 18,00), che l’autrice ha presentato al recente Salone di Torino, Temelkuran sfida infatti i luoghi comuni dell’informazione spiegando come il «caso turco» sia tutt’altro che un’eccezione legata alla religione musulmana o ad una visione autoritaria tipicamente orientale, ma rappresenti piuttosto un possibile modello per tutte le nuove destre che intendano intraprendere «la via che porta dal populismo alla dittatura».
Il suo libro spiega che Erdogan, Trump, Putin, Orbán e Salvini incarnano la medesima minaccia per la democrazia. Come spiegare al resto degli europei che quanto è accaduto in Turchia può ripetersi nel loro paese?
Credo che in ogni paese il populismo di destra tocchi alcune corde specifiche, ma è necessario infrangere l’arroganza di alcuni ambienti occidentali che continuano a ripetere, a mo’ di spiegazione, che «la Turchia è un paese musulmano, quindi…». Quando la Turchia cadde sotto il controllo dei populisti, eravamo tra i primi a conoscere questa deriva, poi sono arrivati Orbán, la Brexit, Trump… e un elenco sempre più lungo di casi. Dopo l’ascesa al potere dell’Akp i media occidentali hanno elogiato a lungo Erdogan e i suoi progressi economici, fingendo di non vedere la repressione. Poi improvvisamente, dopo la rivolta di Gezi Park, la percezione delle cose è cambiata. Il rischio è apparso a tutti evidente, anche se ancora oggi si fatica a vedere le somiglianze tra il modello Erdogan e i tanti potenziali emuli che vanta in Occidente.
Per rendere esplicita la sua analisi, lei paragona più volte Erdogan e Trump. Cosa li rende così simili ai suoi occhi?
Ho l’impressione che per tutti i leader populisti, Trump come Erdogan e gli altri, si possa dire che il loro pensiero ruota intorno ad un vero e proprio culto del potere, che sfocia in forme più o meno aperte di autoritarismo sfruttando quella promessa di grandezza per il loro popolo in base alla quale molti cittadini sembrano disposti a rinunciare anche alla libertà. Anche se poi a ben guardare il sistema che stanno creando segue i dettami dell’individualismo più sfrenato, le regole del neoliberismo.
In effetti la genesi di questa nuova destra si è operata negli anni che hanno segnato la piena affermazione delle politiche neoliberiste: quale il rapporto tra i due fenomeni?
Dagli anni Ottanta, l’affermarsi della parola d’ordine «There is no alternative», lanciata tra gli altri da Margaret Thatcher, è sembrata rubarci anche il diritto di sognare un mondo migliore. Così, la politica è andata in qualche modo evaporando all’interno delle democrazie, spesso ridotte al solo processo elettorale. Ma se si cancella dal sistema democratico la possibilità della giustizia sociale, resta solo una feroce competizione di cui i poveri finiscono per fare le spese. Perciò, ridotta ai minimi termini la sinistra, nel mondo neo-liberale sono cresciuti leader e partiti che si sono posti l’obiettivo di incanalare altrimenti la rabbia che andava montando nella società.
La rappresentazione del conflitto all’interno della società si è così tradotta in un nuovo vocabolario politico: quello del «popolo» contro le «élite».
Questa visione binaria è il punto di partenza delle strategie populiste che cercano di incanalare così la sofferenza reale prodotta dalla diffusa ingiustizia sociale. Quando il mondo è scosso totalmente, come avvenne all’epoca della prima rivoluzione industriale e come sta avvenendo nuovamente oggi, le paure presenti nella società vengono sfruttate dal populismo di destra o da tendenze ancor più apertamente fasciste. Per questo la politica della paura deve essere analizzata in profondità, perché traduce anche una crisi morale più radicale, qualcosa in grado di sconvolgere il corso stesso dell’umanità.
L’obiettivo di questo libro è far sì che l’esempio turco serva a risvegliare le coscienze altrove: cosa si deve fare?
È come se stessimo ancora guardando lo stesso film, ma questa volta parla della politica americana ed europea. Rivedo altrove le esitazioni e la confusione che abbiamo vissuto in Turchia durante i primi dieci anni di potere di Erdogan. Malgrado quanto è accaduto fino ad ora, ancora oggi ogni paese vive la propria follia pensando che il suo caso sia unico. Anche noi turchi l’abbiamo fatto a lungo, immaginando che fosse una deriva che poteva esistere solo da noi o nel mondo arabo. Poi la realtà ci ha risvegliato bruscamente e non ha più smesso di interrogarci. Per questo, non voglio che gli altri popoli vivano la stessa cosa. Credo che tutti, turchi, europei e americani, possano organizzare una risposta globale al populismo di destra. Per fare questo, però, bisogna prima di tutto decifrare la logica comune che guida partiti e movimenti della nuova destra. Allora e solo allora potremo riuscire a fermare questa macchina infernale. Inoltre, bisogna smetterla di osservare il fenomeno da lontano e cominciare a parlare con le cosiddette «persone reali», cercando la lingua per farlo. Se vai dal panettiere e senti qualcuno dire che Marine Le Pen è «la migliore», non alzare le spalle sconsolato ma mettiti a discutere, cerca di capire perché c’è qualcuno che la pensa così. Credo sia il solo modo per fargli cambiare idea. Prima o poi.
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