Nonostante la disponibilità di un vaccino di notevole efficacia, l’epidemia di Ebola nella provincia del Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo iniziata a luglio del 2018 accelera ancora. Se all’inizio si contavano due o tre casi al giorno, poi saliti a quattro-cinque con la ripresa degli scontri armati nella regione, negli ultimi due mesi l’epidemia è entrata in una terza, e più letale, fase. Ora i nuovi casi giornalieri sono in media una quindicina, due terzi dei quali mortali. Il conto dei decessi è ormai arrivato così a quota 1218. Come contromisura, il 7 maggio l’Oms ha stabilito di allargare le vaccinazioni anche a chi non ha avuto un contatto indiretto con i malati ma si trova in una zona a rischio, e di ridurre e la dose somministrata per aumentare le dosi disponibili (senza diminuirne l’efficacia). Nei casi a basso rischio verrà somministrato un nuovo vaccino prodotto dalla Johnson & Johnson, ancora più sperimentale di quello attualmente in uso, targato Merck.

ANCHE L’ULTIMA accelerazione si spiega con la situazione del Nord Kivu, martoriato da una guerra civile tra decine di milizie armate e spesso manovrate dai governi della RdC o dei paesi confinanti. Gli stessi ospedali sono spesso il bersaglio delle azioni delle milizie. In uno di questi attacchi, il 19 aprile ha perso la vita il medico camerunense Richard Mouzouko, inviato all’ospedale universitario di Butembo dall’Oms. L’evento ha reso evidenti le condizioni di insicurezza in cui lavorano i medici della regione.
I frequenti attacchi contro i centri sanitari interrompono la delicata procedura messa in campo dall’Oms per arginare Ebola. Ogni nuovo caso prevede che il paziente venga isolato e che siano rintracciate e vaccinate tutte le persone con cui è stato in contatto, fino a due gradi di separazione. Quando un ospedale viene attaccato, le procedure di sorveglianza si interrompono per giorni, durante i quali il virus si propaga indisturbato.

OLTRE AGLI ATTACCHI militari, gli operatori sanitari fronteggiano anche una diffusa ostilità da parte della popolazione civile. Nella regione si sono diffuse teorie complottiste, come conferma anche una ricerca recente sulla rivista Lancet. Un abitante su quattro della regione del Nord Kivu è convinto che Ebola non esista e che si tratti di un’operazione governativa volta a destabilizzare l’area. Le superstizioni locali stanno alimentando questi sospetti anche attraverso i social network.

Ma gli operatori sul campo raccontano un’altra versione e sottolineano le responsabilità della missione umanitaria. La diffidenza nei confronti dei medici è favorita dalla scarsa capacità di dialogo tra popolazione locale e operatori. Ad esempio, conciliare la prevenzione con i riti locali dedicati ai defunti è problematico. Per ragioni di sicurezza, nei casi sospetti i funerali vengono svolti secondo procedure che impediscono alle famiglie di rispettare la tradizione in queste occasioni. Una pratica necessaria per la prevenzione, ma che nell’80% dei casi riguarda persone senza il virus, con il solo risultato di indispettire la popolazione. Il dialogo fu decisivo nel contenimento dell’epidemia del 2013-2016 in Africa occidentale. Mosokah Fallah, il medico che all’epoca coordinò le operazioni in Liberia, mercoledì ha raccontato alla rivista online The Conversation di non aver esitato a fornire illegalmente sostanze stupefacenti ai membri di una gang locale in cambio del rispetto della profilassi anti-Ebola.

Anche l’annullamento a causa di Ebola del voto locale alle recenti elezioni presidenziali è parso motivato da ragioni politiche più che mediche: i mercati di strada e le funzioni religiose, attività ad alto rischio di contagio, sono infatti proseguite indisturbate. Il risultato di questa diffidenza è che molti malati si tengono lontani dagli ospedali. Secondo l’Oms, due terzi delle vittime non erano tra i contatti monitorati.

COME SPIEGANO sotto anonimato gli operatori sanitari locali, ad alimentare le ostilità ci sono pure concrete ragioni economiche. Per combattere l’epidemia, la comunità internazionale ha messo a disposizione del governo congolese circa duecento milioni di dollari, una grossa fetta dei quali proviene della Banca Mondiale. Tantissimi soldi, in un paese in cui sono insoddisfatti molti bisogni primari. La scarsa trasparenza con cui sono gestiti questi fondi provoca conseguenze perverse. Le autorità locali li usano per placare il malcontento dopo le proteste, con i cosiddetti «progetti di rapido impatto».
Questa ricompensa, a sua volta, stimola nuovi tumulti che ostacolano il lavoro dei medici, favoriscono il contagio e giustificano nuovi investimenti umanitari, almeno finché i donatori staranno al gioco. Se dovessero cessare gli aiuti, peraltro, la situazione potrebbe persino peggiorare.