Mosaico di storie – in cui ogni tessera, irregolare, frastagliata, è la commessura per tutte le altre – composto meticolosamente sul letto prosciugato del Tevere; o altrimenti, usando la sponda musicale, concerto grosso, concerto barocco in cui alla coralità, alla sferzata degli archi o di qualche fiato vigoroso, corrisponde il ripiegamento dell’oboe, il largo movimento dello struggimento o della riflessione: comicità e malinconia, leggerezza e riflessione (al limite anche impegno), questo è Sicccità, l’ultimo bellissimo film di Paolo Virzì, fuori concorso (e ci si chiede perché) a Venezia 79. In effetti la scena del concerto barocco è presa dal film, quando all’improvviso arriva la pioggia sui concertisti che suonano in un chiostro scandendo la colonna sonora e il ritmo del film. Al ritmo di un basso continuo allora, per continuare con l’esempio barocco (barocco romano), senza tempi morti, si intrecciano, si orchestrano, le vicende di personaggi stratificati e incarnati da attori di livello: scontato alludere alla bravura di Mastandrea, Ragno, Orlando, Tortora, forse un po’ meno citare Diego Ribon.

SONO PERSONAGGI contraddittori, tanto umani quanto grotteschi, marionettistici, in balia delle loro cupidigie – spesso una violenza involontaria, becera – così come dei loro desideri frustrati, di una recrudescenza di tristezze, di speranze. Viene in mente uno dei Virzì più esemplari, quel Ferie d’agosto in cui c’era un ritmo simile e una rassegna così sfaccettata di miserie e virtù umane troppo umane: personaggi ora esecrabili ora inteneriti come da un moto interiore, un rigurgito di innocenza, di fragilità, richiamato dagli eventi, da qualcosa di drammatico fuori, all’esterno. In Siccità, oltre alle inferenze, come dire, ataviche della commedia umana, si tratta di qualcosa che riguarda più specificamente i cosiddetti tempi che corrono, o quelli che verranno, che potrebbero venire: l’acqua, la mancanza d’acqua e il risvolto di nuove malattie, portate dalle blatte, un mare di blatte. In questo senso è impressionante l’immagine del Tevere prosciugato, attraversato da Antonio (Silvio Orlando) alla ricerca della figlia, mentre tra ruderi e cumuli di spazzatura squittiscono i topi e stormi di uccelli cianciano coi vari ciarpami: specie di visione (apocalittica) della terra desolata.

L’aspetto visionario è presente nel film sotto forma di figure fantasmatiche, o forse miraggi (in questo deserto arido) che satellitano intorno a Loris (Valerio Mastandrea)

DEL RESTO l’aspetto visionario è presente nel film sotto forma di figure fantasmatiche, o forse miraggi (in questo deserto arido) che satellitano intorno a Loris (Valerio Mastandrea), tant’è che quando è in ospedale moribondo, non si capisce se l’abbraccio che gli dà la sua ex-moglie (Claudia Pandolfi) sia reale o solo immaginato. Ospedali che si riempiono di questi sonnambuli, narcolettici in preda ai sudori; mancanza e – paradossalmente – spreco d’acqua; crisi economica senza ritorno; orrende sperequazioni: insomma il riferimento non è solo al Covid ma in generale alle responsabilità degli uomini, alla loro cecità di fronte al processo di estrema degradazione del pianeta. Se l’imperativo della politica in Don’t Look Up – evidentemente citato: c’è anche il professore veneto esperto d’acqua che si lascia irretire dalla vita televisiva romana, con tanto di belletto, trucco, parrucco e gli ammiccamenti con un’attrice provocante (Monica Bellucci) –, se lì la raccomandazione era di non guardare in cielo per ignorare l’incombere della cometa, qui il sonnambulismo dei drogati di social e di resort, porta a non guardare in basso e non accorgersi delle blatte che vermicano inesorabili sui pavimenti. Certo, arriva la pioggia, euforia di un momento: come un manto, una salubrità dell’aria, che non si sa se salverà Loris. Queste malinconiche, comiche marionette continueranno la loro esistenza, a spasimare e a dimenarsi nell’iperuranio della commedia.