«È un problema di cultura d’impresa, l’azione giudiziaria da sola non basta»
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«È un problema di cultura d’impresa, l’azione giudiziaria da sola non basta»

La campagna d'Italia Davide Lucisano, sostituto procuratore a Palmi: «Denunciare è importante, anche se farlo può voler dire perdere tutto. Per questo siamo arrivati a chiedere di concedere il permesso di soggiorno per motivazioni sociali»
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 22 giugno 2024

Il nuovo schiavismo è nascosto in piena luce: le inchieste giudiziarie sul caporalato si contano nell’ordine delle svariate decide in Italia. Indice di un fenomeno molto più diffuso di quanto faccia comodo pensare, da nord a sud, senza soluzione di continuità. Lo scarso appeal elettorale del tema contribuisce in maniera forse decisiva a rendere particolarmente spessa la coltre di silenzio che avvolge quello che succede in molte campagne. Così come va considerato quanto possa essere difficile per uno sfruttato denunciare il proprio sfruttatore.

Davide Lucisano, sostituto procuratore a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, lei ha condotto diverse indagini sul caporalato. Quanto è difficile far emergere certe situazioni?
Molto. Per diversi motivi. C’è prima di tutto un aspetto che potremmo definire ambientale: denunciare il proprio sfruttamento espone a rischi di varia natura, dalla ritorsione alla perdita del posto di lavoro, che seppur malpagato e svolto in condizioni di estremo disagio, spesso rappresenta l’unica soluzione per molte persone. Poi c’è sicuramente una questione linguistica: tanti lavoratori, soprattutto stranieri, non possono materialmente denunciare in assenza di un interprete. Bisogna aggiungere che però a volte accade…
Per esempio?
Nel 2020 a Palmi abbiamo fatto scattare l’operazione Euno (18 caporali e 11 imprenditori agricoli indagati per sfruttamento lavorativo e favoreggiamento della prostituzione. L’iter processuale è ancora in corso, ndr) proprio grazie a un lavoratore che si era deciso a denunciare alcuni stipendi non corrisposti. Le indagini sono cominciate così, nel 2018. Ai tempi c’era la baraccopoli di San Ferdinando: un luogo estremamente degradato dove sono anche morte delle persone.
E c’è la possibilità di proteggere chi decide di denunciare?
Certo. Proprio con l’operazione Euno, come procura abbiamo chiesto, per la prima volta, la concessione del permesso di soggiorno per motivi sociali. La legge lo prevede per situazioni di violenza, minacce o sfruttamento ed è fondamentale, perché offre supporto a chi decide di far emergere questo tipo di situazioni.
Dunque sul caporalato e su queste forme di schiavismo esistono già leggi che funzionano.
Sì. Prima della legge 199 del 2016 la situazione era peggiore: per procedere servivano violenze o minacce nei confronti del lavoratore, il solo sfruttamento non aveva di per sé grande rilievo penale. Adesso la situazione è diversa: si è capito che il lavoratore a volte accetta condizioni terribili per pura necessità, cioè in assenza di violenze o minacce. Poi vorrei aggiungere che, in ogni caso, queste situazioni non si possono affrontare solo dal punto di vista giudiziario.
E come altro?
Bisogna creare dei sistemi virtuosi in base ai quali gli imprenditori devono abbandonare certi metodi. Esistono reti sindacali e movimenti che lavorano molto e bene su questo. E ci sono avvocati che si dedicano al tema in maniera encomiabile: sono fondamentali. Anche la politica, poi, deve fare il suo: occorre che venga garantito tutti i lavoratori di poter vivere in situazioni di minore disagio, in modo da non trovarsi costretti ad accettare lo sfruttamento.
Dietro il caporalato spesso e volentieri ci sono le mafie. Ma non solo: altre volte si tratta di imprenditori che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata…
È vero, al di là delle mafie esiste purtroppo una cultura imprenditoriale che mira a fare maggiori profitti a scapito dei lavoratori e delle loro garanzie. Intendiamoci: non parlo della maggioranza, ma sono situazioni che esistono. Alcuni datori di lavoro sono proprio abituati a rivolgersi ai caporali per trovare forza lavoro.
Ecco, come funziona il reclutamento?
Ho visto situazioni diverse. Ci sono caporali che dispongono di veri e propri pacchetti di lavoratori che poi offrono alle imprese. Si tratta di un fenomeno che potremmo definire strutturale e che funziona sempre allo stesso modo. C’è pure chi finisce a lavorare sotto un caporale per una sorta di passaparola tra sfruttati: magari una persona cerca lavoro e parla con chi già è sottoposto a caporalato. E così entra in questo circolo.
E i controlli?
Vengono fatti da tutta la polizia giudiziaria, ma sono lavori che presentano diverse difficoltà. Chi opera in questo settore, diciamo, non è uno sprovveduto e magari ha tutte le carte in regola, quindi quando si fanno accertamenti documentali non emerge niente di irregolare. Anche se poi nella prassi le cose stanno in maniera molto diversa. Per questo motivo è molto importante che ci sia la collaborazione dei lavoratori. Talvolta si fanno controlli durante lo svolgimento delle prestazioni e non è raro assistere a scene in cui arrivano i carabinieri nei campi e i lavoratori si danno alla fuga. Sono i caporali che li istruiscono a fare così…

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