Un paese che sfonda il muro del 40% di disoccupazione giovanile, che viene multato dalla Ue per la carenza di investimenti nella depurazione dell’acqua potabile dovrebbe avere una classe politica impegnata a spiegare ai cittadini le cause di questi fallimenti, per capire come potervi porre riparo.

Niente di tutto questo, la piazza politica è occupata sì da questioni di sopravvivenza, ma si tratta della propria, quella di un ceto politico attraversato da lotte intestine su ogni versante, di governo e di opposizione.

Le generazioni sono abbandonate nel girone della sussistenza, le famiglie stanno per ricevere nuovi rincari delle bollette dell’acqua (dopo quelle di luce e gas, mentre si ipotizzano nuovi tagli alla spesa pubblica) ma in quel mondo separato tiene banco la data delle elezioni, le motivazioni della consulta, il premio di maggioranza e i capilista bloccati. Oltretutto marcando una distanza siderale tra quel che sta avvenendo nell’American psycho di Trump e le questioni del nostro piccolo cabotaggio partitico-governativo.

Lo spettacolo che il marasma del Pd (e dello schieramento del defunto centrosinistra) sta offrendo agli appassionati del genere è notevole, tanto quanto la reazione di ostilità che un simile panorama politico può legittimamente suscitare nella nostra società, colpita da un così progressivo e pervasivo arretramento.

Assistiamo a uno sciogliete le righe del partito che regge il governo, a uno scontro frontale tra primi uomini del ceto politico che origina proprio da una poderosa protesta popolare come è avvenuto con la micidiale batosta referendaria. Renzi ne è stato travolto e la voglia matta di rivincita lo spinge fino alla scommessa della disintegrazione finale.

Nella folta schiera degli orfani di Renzi, quelli che salutavano la giovane promessa della sinistra italiana e oggi lo dipingono come un reprobo della peggior specie, scende ora in campo anche l’ex capo della repubblica, Giorgio Napolitano. Il lord protettore del rottamatore, il padre putativo delle riforme renziane.

Nell’abbandonare al suo destino l’ex presidente del consiglio, Napolitano ha tuttavia dalla sua parte almeno una certa coerenza nel giudicare improponibile la corsa verso il voto anticipato («nei paesi civili si va a elezioni quando scade la legislatura»). Osteggiata, oggi come ieri, quando, piuttosto che affrontare il responso delle urne di fronte alla crisi del 2011, nominò Mario Monti senatore a vita, benedì Letta fino a concludere l’infausta parabola battezzando il sindaco di Firenze come leader mondiale.

La sala d’attesa del sol dell’avvenire (l’Ulivo bersaniano, il listone dalemiano, il congresso dell’ex Sel di Vendola con i fuoriusciti del Pd) rischia di lasciare solo posti in piedi. La sindrome della divisione che sembra aver colpito Sinistra italiana, proprio alla vigilia del congresso che avrebbe dovuto celebrarne la fondazione come il partito nuovo dell’alternativa, è un pessimo segnale.

Proprio nel momento di maggiore crisi del Pd, Sinistra italiana sembra smarrire anche la bussola. E anziché andare a un confronto congressuale con tanta legna al fuoco, anziché misurarsi con l’aspettativa sociale che pretenderebbe una sinistra larga e coinvolgente, programmatica e credibile come è accaduto nelle famiglie della tradizione democratica e socialista europea, si ritrova a parlare di tessere e di leadership. Tutti in attesa che Renzi, prima o poi, gli fornisca l’alibi della scissione o l’approdo di uno sbiadito arcobaleno.