Qualche anno fa, in un grosso studio sulle relazioni internazionali alla vigilia della Grande guerra, si è sostenuto che «i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere (…). Ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo» (C. Clark, I sonnambuli, 2013). Agli inizi degli anni Sessanta e poi degli anni Settanta altri due monumentali lavori studiarono non tanto i modi di considerare il sistema dei rapporti tra le potenze attraverso i giochi delle diplomazie, quanto i meccanismi strutturali che i sonnambuli non vedevano.

Gli autori erano storici liberali, Fritz Fisher e Richard Webster, che si concentrarono l’uno sull’imperialismo tedesco (Assalto al potere mondiale, 1961), l’altro sull’imperialismo italiano (L’imperialismo industriale italiano, 1974). Lo stesso Clark, che pure, come detto, privilegia la dimensione della storia diplomatica, nei confronti della tesi di Fisher sulla responsabilità primaria dell’imperialismo tedesco nello scoppio della Grande guerra, ricorda che «i tedeschi non erano i soli imperialisti».

Ricorda, altresì, che il «luglio 1914 è meno distante da noi» di quanto non lo fosse prima della fine dell’Unione Sovietica. Di fronte al problema della complessità di una definizione/comprensione di un’Ucraina come «terra di confine», di fronte alla necessità di una definizione/comprensione della natura dei nuovi imperialismi, la responsabile esteri del Pd afferma apoditticamente che «per l’Italia, è il momento di dire da che parte stiamo, esprimendo solidarietà all’Ucraina, e ferma condanna alla crescente aggressività di Mosca». Il che non è altro che l’adesione acritica alla formulazione espressa a suo tempo dagli Stati Uniti e ripetuta costantemente in ogni sede Nato: ««All’inferno, alla fine abbiamo vinto noi non loro». I «sonnambuli» hanno ripreso il loro cammino.

Gli abitanti dell’Ucraina, cioè di quella regione est-europea che nel corso del Novecento ha cambiato più volte i propri confini, sono un coacervo etnico-linguistico frutto di questa storia. La loro rappresentazione in termini di compattezza antirussa è un aspetto dell’«invenzione della tradizione», un aspetto privo tanto di analisi storica quanto di aderenza alla situazione attuale. Un aspetto di propaganda tipica dei periodi prebellici: aspetti del genere ne abbiamo visti negli anni precedenti il 1914. E, come allora, si prescinde del tutto anche dalla disamina della categoria «imperialismo» nelle logiche della geopolitica. Eppure la questione ucraina si manifesta proprio come risultante dell’incrocio tra i problemi storici tipici di una «terra di confine» tra molte entità nazionali, e le nuove forme di imperialismo nell’epoca del capitale finanziario come struttura essenziale del capitale totale.

Quando, agli inizi del Novecento, in altro contesto, si verificò lo stesso incrocio tra geopolitica e le forme dell’imperialismo di allora, fu proprio dall’interno della sinistra dei socialisti che vennero i contributi di conoscenza più importanti, e profetici, sulla questione. Non è un caso se gli studi di Hilferding (1910) e di Rosa Luxemburg (1913) sono, giustamente, considerati lavori essenziali per comprendere la catastrofe del 1914. La cultura del socialismo era l’esatto contrario di qualsiasi tipo di «sonnambulismo». Sarebbe, ovviamente, del tutto fuori dalla realtà pretendere un accostamento dello sguardo della Luxemburg a quello della responsabile esteri del Pd, ma non necessariamente gli esiti dell’incommensurabile distanza avrebbero dovuto manifestarsi nella putrefazione di una tradizione politico-culturale di tale rilevanza.

Resta da chiedersi se da parte della sinistra per simmetria vi sia consapevolezza del carattere non conoscitivo, bensì esclusivamente propagandistico, delle proprie formulazioni sulla questione ucraina. In ogni caso è certo che si tratta di una forma comunicativa in favore di quello, tra gli imperialismi, di cui ci si sente parte organica. Parte organica di un ordine internazionale neoliberista, sbocco naturale e razionale della ormai conclusa dialettica tra l’antitesi dei subalterni e la società del capitale. Se tale dialettica, che ha caratterizzato tanta parte dell’Ottocento e quasi l’intero Novecento, è considerata una storia finita, non c’è limite al processo di naturalizzazione del presente.

La naturalizzazione neoliberale deve per forza comprendere la naturalizzazione dell’ordine internazionale che la garantisce: anche la Nato e le sue logiche ne fanno parte. Se la Nato va in guerra anche la sinistra per simmetria si mette l’elmetto e fa alzare i suoi F-35, esattamente come più di vent’anni fa fece alzare i suoi Tornado per bombardare la Serbia.
Nel lungo e difficile percorso per costruire una sinistra non per simmetria in Italia, anche la politica estera del paese dovrà avere carattere dirimente.