Poco prima del tramonto del sabato pomeriggio afoso di ieri, nelle strade di Tel Aviv si riversano già migliaia di israeliani arrivati da tutto il Paese per prendere parte alle manifestazioni. Giovani e meno giovani, tutti camminano a passo deciso verso i punti di ritrovo, molti con la bandiera in mano. I volti rivelano la stanchezza, la preoccupazione, la frustrazione, la rabbia, ma soprattutto la consapevolezza di chi sa che il tempo sta per scadere.

«OGGI SONO 218 giorni che i nostri cari si trovano prigionieri nell’inferno di Gaza»: così si è aperto il consueto discorso delle famiglie che precede l’inizio delle proteste. «Ci siamo riuniti qui per gridare a tutto il popolo di Israele che il governo israeliano ha rinunciato agli ostaggi abbandonandoli alla morte come prigionieri di Hamas. Oggi è ormai chiaro che solo un altro governo potrà riportarli a casa. Nelle ultime settimane il primo ministro ha messo in atto un sabotaggio criminale. È colpa di Netanyahu se non c’è un accordo e gli ostaggi non fanno ritorno. Abbandona i nostri parenti alla morte per considerazioni di natura politica. L’ingresso a Rafah e l’ampliamento dell’operazione militare allontanano l’accordo e mettono i nostri cari a repentaglio. Finché resterà al potere Netanyahu, gli ostaggi non toneranno perché lui non li vuole a casa. Ma Netanyahu non siede da solo nel gabinetto di Guerra. Gallant, Gantz e Eizenkot: voi consentite a Netanyahu di sabotare gli accordi, non lo fermate, non lo smascherate e collaborate con lui. Il sangue degli ostaggi è anche sulle vostre mani, anche voi siete complici dell’abbandono. Per salvare gli ostaggi si può e si deve fermare la guerra!».

L’APPELLO STRAZIANTE dei parenti, nel tentativo disperato di salvare qualcuno ancora vivo, fa seguito all’ennesimo video rilasciato da Hamas che, in fatto di comunicazione è sempre un passo avanti rispetto a Israele.
Tuttavia, benché le famiglie degli ostaggi riscuotano grande empatia tra la popolazione, a sette mesi dall’inzio del conflitto, a dimostrare concretamente contro l’operazione a Rafah sono quasi solo gli scarni blocchi della sinistra radicale che sostiene che in Israele, dopo il 7 ottobre, ethos e morale sono andati ufficialmente alla deriva e, con essi, la possibilità di esprimere liberamente critiche e dissenso. La maggior parte della società ebraica, infatti, sembra essere ancora intrappolata nello slogan propagandistico di «insieme vinceremo», ma soprattutto è ripiegata nel lutto e nel dolore che la continua narrazione delle storie delle vittime e i traumi ancora in corso, non aiutano certo a superare.
Ed è così che quest’anno Israele si appresta alle commemorazioni dell’annuale Giornata in ricordo dei caduti di guerra e delle vittime degli attentati terroristici che avrà inizio questa domenica sera al tradizionale suono della sirena. La commemorazione dei caduti segue di una settimana quella delle vittime della Shoah e precede di un giorno le celebrazioni dell’Indipendenza.

Famiglie degli ostaggi
Nelle ultime settimane il primo ministro ha messo in atto un sabotaggio criminale. È colpa sua se non c’è un accordo con Hamas

UNA SEQUENZA non casuale e molto suggestiva, che ogni primavera fa leva sulla tragedia della Shoah attribuendo a quest’ultima anche l’ingrato compito di legittimare l’agenda politica e militare israeliana da oltre settant’anni. Come scrive lo storico Yair Auron nel suo La Shoah, la rinascita e la Nakbah, nel corso di tre generazioni Israele ha coltivato miti fondanti che collegano Shoah e rinascita, plasmando di conseguenza la coscienza collettiva. Il messaggio del legislatore era chiaro sin dal principio: nella nuova patria la drammatica disfatta culminata nello sterminio di sei milioni di ebrei durante la Shoah non si sarebbe mai più dovuta ripetere. Con il passare degli anni poi, il moltiplicarsi delle guerre e degli attentati terroristici, complici anche le politiche degli stessi governi israeliani, non hanno fatto che alimentare una narrativa dell’eroe che ancora oggi celebra troppo acriticamente le vittime.

La domanda che ci si pone è se, di fronte alle migliaia di soldati che da sette mesi tornano dalla guerra con la sindrome post traumatica complessa e necessitano di terapie e cani guida per uscire di casa, di fronte a morti, feriti, migliaia di civili sfollati, ostaggi, di fronte alla riprovazione internazionale che ha riportato l’antisemitismo alle stelle, di fronte alla crisi economica e al generale degrado della salute mentale, non sia arrivato il momento di invertire seriamente la rotta, se non per empatia nei confronti dei palestinesi, almeno per salvaguardare la società ebraica e salvarla dall’abisso nel quale sta precipitando.

DEL RESTO, come ci ricorda il sito del Parents circle – family forum, un’organizzazione congiunta israelo-palestinese che dal 1995 raccoglie oltre 600 famiglie che hanno perso un familiare a causa del conflitto in corso, «la guerra non è un destino predeterminato, bensì solo una scelta umana».