Negli ultimi due anni del suo mandato da presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha chiesto ai governi europei che hanno beneficiato della «sua»politica monetaria accomodante – il «Quantitative Easing» («Qe») – l’uso espansivo della leva fiscale, ovvero gli investimenti dagli enormi margini fiscali accumulati dalle politiche monetariste che hanno creato asimmetrie spaventose tra gli Stati membri dell’Ue. L’invito era diretto a governi come quello tedesco, mai sanzionato, meno all’Italia che ha seguito la stessa politica ma era gravata -allora come oggi- dal peso del debito pubblico e da prospettive di crescita economica anemica. Nessun governo allora ascoltò quell’invito. Il «Qe» ha alleviato il costo degli interessi sul debito pubblico e ha comprato tempo in attesa di una discontinuità che tuttavia non è mai arrivata. Davanti a questa contraddizione si è arenata la politica monetaria che porta ancora oggi il nome di Draghi, il signor Whatever It Takes.

***Bce, l’addio di Draghi un’eredità scomoda nella crisi che incombe

Ma tutto questo era prima del Covid. Sembra un secolo fa. Da marzo 2020 l’ortodossia del bilancio è stata sospesa, mentre i governi hanno iniziato a spendere. Negli ultimi dieci mesi la leva fiscale è stata usata, eccome. La Commissione Ue, tutti i governi europei, compreso quello uscente «Conte 2», senza contare l’ultimo maxi-piano anti-pandemia Usa da 1900 miliardi di dollari di Biden, hanno seguito una politica così riassunta da Draghi sul Financial Times del 25 marzo 2020: «Dobbiamo proteggere in primo luogo i lavoratori dalla perdita del lavoro – scrisse – Se non lo facciamo usciremo dalla crisi con un occupazione e una capacità produttiva permanentemente più bassa mentre la famiglie e le imprese faranno fatica a riparare i loro bilanci e ricostruire i loro patrimoni». Il «debito è buono», specificò nell’intervento fatto a Rimini il 18 agosto scorso alla rentrée estiva di Cl, se «utilizzato a fini produttivi» si legge in un testo che a molti allora sembrò delineare il contenuto programmatico di un altro governo. Il suo. Sempre che riesca a comporre una maggioranza, in attesa di un programma (la Flat tax di Salvini o il «No» di Renzi al «reddito di cittadinanza»?), Draghi potrebbe trovarsi al governo, dall’altra parte della barricata.

Buono o cattivo, il «debito», sarà finanziato dal «Qe» e dal Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (PEPP) della Bce con 1850 miliardi di euro fino a marzo 2022, rinnovabile. Per ora questa politica tiene in piedi l’Italia che ha prodotto un debito pari a 150 miliardi di euro. Il «Conte 2» lo ha impiegato in gran parte in aiuti alle imprese e nell’estensione delle casse integrazioni (si attende l’approvazione del decreto «Ristori V»), bruciando molte risorse in una politica disordinata e simbolica di bonus per precari e poveri, priva di una prospettiva di reale riforma sociale universalistica. Nell’articolo sul Financial Times Draghi ha alluso a un «reddito di base». Un breve cenno nel quadro di un’economia sociale di mercato (variante nel neoliberalismo) seguita da tutti i governi che scambiano i diritti per «sussidi», «ristori» e indennizzi. Servono a «sopravvivere, a ripartire» ha detto Draghi a Rimini. È la premessa di un«workfare» basato sulle «politiche attive del lavoro», previste dal cosiddetto «reddito di cittadinanza» e dal «Recovery fund» di cui sarà il garante. Così avverrà per il blocco dei licenziamenti che scade il 31 marzo. L’eliminazione costerebbe il posto a quasi un milione di persone. E così sarà per le imprese. Nel rapporto del Group of Thirty, diretto da Draghi si legge: «Chi dovrà decidere quali aziende dovranno essere aiutate?».

Dopo avere chiesto ai governi di azionare la leva fiscale, Draghi potrebbe ora porsi il problema della sua durata, e di chi la pagherà, sempre che la recessione non si trasformi in «depressione prolungata», causando «danni irreversibili» e «una pletora di bancarotte». Tamponare, in attesa che la crescita ritorni. Questo è l’orientamento messianico per evitare il crack.