Dopo l’attentato dell’altro ieri sera al supermercato «Perekrestock» di San Pietroburgo che ha provocato 14 feriti, giovedì mattina il presidente russo Vladimir Putin intervenendo in una cerimonia di premiazione dei soldati russi che hanno partecipato alle operazioni anti-terrorismo in Siria si è domandato retoricamente: «Come saprete ieri a San Pietroburgo c’è stato un attacco terroristico.

E recentemente l’Fsb ne ha sventato un altro. Che cosa accadrebbe se di queste migliaia di terroristi… di cui ho appena parlato, a centinaia rientrassero da noi addestrati e armati?»

UNA DICHIARAZIONE che conferma alcune ipotesi che sul manifesto abbiamo già messo in evidenza: in primo luogo Putin ritiene che la matrice dell’attentato sia da ricondurre al fondamentalismo islamico. Ma non solo. Il capo del Cremlino ritiene che l’attentato possa essere stato organizzato proprio da quei foreign fighters di origine cecena o centroasiatica che hanno combattuto in Siria al servizio dello Stato Islamico e ora, dopo la decomposizione dell’Isis, stanno cercando di rientrare nei loro paesi di origine o si vogliono installare in Russia. Il presidente russo ha posto la questione in modo ipotetico e condizionato, ma è evidente che il processo di rientro è da tempo in corso.

IERI RUSSKAJA GAZETA, riflettendo proprio su questi aspetti si chiedeva se «garantire l’ingresso di stranieri senza visto a patto che abbiano acquistato un biglietto per una partita dei prossimi mondiali di calcio, sia ancora una buona idea, visto che così si favorirebbe l’ingresso indiscriminato nel paese di ogni sorta di individui».

La Russia potrebbe essere alla vigilia di sperimentare – più di quanto già non faccia – l’altro lato della medaglia dello scontro con lo jihadismo: il fronte interno. Non è un caso che quando – giorni fa – il presidente ceceno Ramzan Kadyrov aveva chiesto al governo di adoperarsi per il rientro di 79 bambini e 25 donne di cittadinanza russi deportati in campi di concentramento in Iraq in quanto famigliari di foreign fighters, la reazione del Cremlino fosse stata assai cauta, per non dire infastidita. La Russia teme di pagare lo scotto al suo intervento in Siria: una guerra a bassa intensità punteggiata da attentati e provocazioni.

ANCHE PER QUESTO, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov ha voluto sottolineare che «è indispensabile la collaborazione internazionale perché la lotta al terrorismo resti efficace anche a lungo termine». Ma Putin è riuscito a guadagnarsi i titoli di testa delle agenzie di stampa aggiungendo una nota inquietante alla sua riflessione sull’attentato di mercoledì.

«A TALE PROPOSITO – ha dichiarato il presidente russo – ho dato istruzione al direttore del Fsb che nel caso di arresto di questi delinquenti di agire nel rispetto della legge, solo della legge. Ma quando esiste una minaccia per la vita e l’integrità dei nostri collaboratori, ho dato ordine che i nostri agenti agiscano con decisione, senza prendere prigionieri, eliminando i banditi sul posto». Un’affermazione dettata dalla campagna elettorale in corso ma che ha superato di gran lunga «a destra» le dichiarazioni dello xenofobo Vladimir Zirinovsky, il quale subito dopo l’attentato aveva chiesto a gran voce la «reintroduzione immediata della pena capitale». Battute elettorali a parte, ieri è stato precisato dagli inquirenti che ai 200 grammi di esplosivo alla bomba erano stati aggiunti dagli attentatori chiodi e palline di acciaio nel tentativo di provocare un gran numero di vittime.