Il parlamento italiano torna a pronunciarsi sul caso di Patrick Zaki, di nuovo all’unanimità. Il governo conceda la cittadinanza allo studente egiziano dell’Università di Bologna, detenuto al Cairo dal 7 febbraio 2020: è la richiesta contenuta nella mozione votata dalla Camera, a firma Lia Quartapelle e Filippo Sensi (Pd), come quella approvata il 14 aprile scorso al Senato: con 388 voti a favore e la sola astensione di Fratelli d’Italia (anche qui, voto fotocopia di quello dei senatori di tre mesi fa), i deputati chiedono all’esecutivo di «avviare tempestivamente mediante le competenti istituzioni le necessarie verifiche al fine di conferire a Patrick George Zaki la cittadinanza italiana».

Il testo chiede anche al governo di «continuare a monitorare, con la presenza in aula della rappresentanza diplomatica italiana al Caio, lo svolgimento delle udienze processuali a carico di Zaki», via crucis senza apparente soluzione di continuità con il costante allungamento della detenzione preventiva, senza che si giunga mai a processo.

La mozione della Camera ieri ha ricevuto il parere favorevole del governo, come successo al Senato, condizione che non permette di cantar vittoria: dall’orizzonte politico governativo manca l’effettiva intenzione di procedere. Un’impressione sostenuta dalle dichiarazioni che in queste settimane diversi rappresentanti dell’esecutivo Draghi hanno rilasciato. A partire dallo stesso primo ministro che il 16 aprile scorso, a due giorni dal pronunciamento di Palazzo Madama, aveva affossato la questione definendola «un’iniziativa parlamentare» in cui «il governo non è al momento coinvolto».

Dopotutto martedì, durante la discussione generale, il sottosegretario agli Esteri Di Stefano rimetteva sul tavolo i presunti ostacoli al riconoscimento della cittadinanza, gli stessi elencati dalla vice ministra Sereni tre mesi fa: azione controproducente perché a prevalere sarebbe la cittadinanza egiziana, non aggiungendo nulla al carnet di diritti rivendicabili da Zaki, e perché potrebbe mettere ulteriormente a rischio la situazione dello studente.

Che la sua situazione possa peggiorare, viste le condizioni di detenzione e il suo prolungamento ossessivo e punitivo, pare difficile. Sulla prima obiezione, se l’Egitto e il suo sistema giudiziario continueranno comunque a ritenerlo prima di tutto cittadino egiziano, è vero anche che da italiano potrebbe godere di visite in cella di rappresentanti diplomatici italiani e di una maggiore pressione politica.

Ma forse il punto sta proprio qua: la mancata volontà di fare pressioni concrete su un paese da cui non siamo riusciti a ottenere uno straccio di verità sull’omicidio di Giulio Regeni, colpendo di fioretto con una mano, mentre con l’altra si continuano a firmare accordi commerciali e militari. L’Italia avrebbe più di uno strumento per intervenire con il regime del Cairo, definito un paese imprescindibile nello scacchiere mediterraneo e per questo premiato con un’impunità inaccettabile. Ma non lo fa.

E in Egitto si continua a vivere in uno Stato di polizia. A morire, anche. Domenica è stato giustiziato un altro giovane. Studente di ingegneria, 27 anni, Moataz Mustafa Hassan è stato ucciso in una prigione del Cairo, con l’accusa di aver preso parte al tentato omicidio dell’ex direttore generale della sicurezza di Alessandria nel 2018. Con lui sono stati condannati all’impiccagione altri due imputati. L’Egyptian Network for Human Rights ha denunciato le brutali torture subite e le minacce di stupro verso la madre e la sorella. Hassan alla fine ha confessato, per farli smettere.