Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due giornalisti birmani della Reuters arrestati nel 2017 e condannati a sette anni di carcere l’anno scorso, sono liberi. La mossa a sorpresa è una delle rare buone notizie che arrivano dal Myanmar e si accompagna a una decisione dell’ufficio del presidente Win Myint di procedere in occasione dell’anno nuovo (iniziato a metà aprile) a un’amnistia generale per oltre 6.500 prigionieri. Cui è seguito il perdono per i due reporter.

Le foto li ritraggono felici e sorridenti. Entrambi hanno famiglia e uno ha una figlia nata mentre il padre era dietro le sbarre. I due giornalisti, che per la loro indagine su una strage di rohingya hanno ricevuto il Pulitzer nel 2018, hanno passato in carcere più di 500 giorni e avevano forse perso le speranze dopo il rigetto in gennaio del ricorso presentato dai loro legali a fronte della condanna in primo grado nel settembre 2018 a sette anni per violazione del segreto di Stato.

Wa Lone e Kyaw Soe Oo non avevano partecipato all’udienza in cui il giudice aveva sostenuto che la difesa non era stata in grado di dimostrare la loro innocenza e che la punizione comminata era «adeguata» al crimine. Ora i due giornalisti finalmente liberi dicono che continueranno a fare il loro mestiere.

Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove dirette (poi messe assieme dai colleghi della redazione centrale) sui crimini commessi da Tadmadaw (l’esercito) nello Stato del Rakhine da cui, nell’agosto 2017, i militari hanno costretto alla fuga oltre 700mila rohingya, la minoranza musulmana della regione quasi completamente trasferita in Bangladesh in campi profughi che sono ormai una città.

Furono arrestati con una trappola: avevano incontrato degli agenti che gli avevano messo in mano dei documenti mentre la polizia aspettava quel momento per arrestarli con la prova di una violazione del segreto di Stato.

Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove in particolare su una strage compiuta dall’esercito birmano nel villaggio di Inn Din, nel nord del Rakhine nel settembre 2017. Si tratta a oggi dell’unica strage ammessa (in seguito) dai generali birmani. La loro condanna aveva sollevato polemiche, reazioni e proteste ma il Myanmar non aveva mai mostrato alcun segno di marcia indietro. Poi ieri la buona notizia.

Intanto nel Rakhine non è solo la comunità rohingya, ormai ridotta all’osso e in gran parte sfollata, a soffrire degli esiti di una guerra contro le minoranze e che vede sulla scena negli ultimi mesi l’Arakan Army, formazione armata il cui scopo è la protezione della minoranza arakanese (e buddista) del Rakhine.

Il governo dello Stato ha chiesto al governo dell’Unione 20 milioni di dollari per un rifugio per gli oltre 30mila sfollati in fuga dai combattimenti ripresi a gennaio tra AA e Tatmadaw. Gli sfollati, sostenuti da gruppi locali della società civile e monaci, hanno sollecitato il governo statale a fornire aiuti e riparo a chi fugge da una delle tante guerre del Paese.