Si chiude con la proposta di una manifestazione nazionale, prevista per il 1 novembre, anniversario della vittoria di Kobane, il presidio in piazza Indipendenza, a Roma, organizzato da Uiki e Rete Kurdistan Italia.

Un appuntamento a cui hanno risposto circa 400 persone, unite nel condannare l’attacco turco al Rojava.
Moltissime bandiere curde, tante con il volto del leader Ocalan, testimoniano il sostegno all’esperienza che si sta portando avanti nella Siria del Nord-Est: un modello di «società democratica, in cui convivono cristiani, musulmani, arabi, siriani, curdi», come ha ricordato il rappresentante del Congresso Nazionale Curdo (Knk) intervenuto in piazza, ricordando che l’attacco di Erdogan non arriva dopo un’aggressione: «Noi ci stiamo difendendo. Chiediamo alla comunità internazionale di fare altrettanto». L’appello alla comunità internazionale è costante, di fronte a condanne istituzionali che suonano come parole vuote: quello che si chiede sono reazioni concrete. Anche all’Italia: «Il governo italiano ritiri l’ambasciatore: un gesto formale ma simbolicamente importante», afferma Vincenzo Miliucci di Cobas -presente anche come membro della rete Kurdistan – che sottolinea l’urgenza di smettere di vendere armi ad Ankara, «anche in base alla legge del 1990, che vieta di vendere armi a un paese belligerante: altrimenti siamo complici».

Gli fa eco ZeroCalcare che a Kobane ha dedicato una graphic novel: «Questa guerra si sta combattendo in larga parte con armi italiane. L’Italia ha rapporti commerciali e diplomatici con la Turchia, e dobbiamo esigere che vengano messi in discussione». Dal palco arriva l’invito a fare pressione dal punto di vista economico, boicottando i prodotti turchi.

Tra le tante voci che si alzano dalla piazza, risuona quella dei membri italiani di Friday for future, che leggono una lettera ricevuta dal Rojava: «Abbiamo protestato insieme a voi per chiedere un mondo diverso. Un mondo che qua stiamo già sperimentando, basato sulla liberazione delle donne, l’ecologia, la democrazia radicale. Questo sistema è stato preso di mira dalle forze reazionarie: Isis, e Erdogan che dal 9 ottobre ci sta bombardando. Restate con noi».

L’invito a non abbandonare il Nord-Est della Siria si fa imperativo di fronte alle parole di Erol (Uiki): «Voi tutti avete un debito, non solo con i curdi, ma con tutte le persone in Rojava, perché hanno sconfitto l’Isis. Abbiamo perso quasi 15mila persone. Non abbiamo combattuto solo per noi, ma per il mondo intero».

Ma non è solo la guerra contro Isis a dover coinvolgere l’intera società: «Il Rojava rappresenta un’alternativa al capitalismo, che in tutto il mondo distrugge l’ambiente e la vita delle persone»: così Beitan, 25enne curda, da diciassette anni in Italia. «Una possibilità non solo per il Medio Oriente, ma per tutto il mondo: proprio per questo è sotto attacco».

«È un’aggressione mirata alla rivoluzione che si sta compiendo in Rojava», evidenzia Dilar, rappresentante del Movimento delle donne curde, a Roma in occasione della conferenza ‘Women freedom in the 21 century’ che si sta tenendo in questi giorni alla Casa internazionale delle donne.

«Le bombe turche stanno uccidendo i civili, e la Turchia si prepara a entrare in Rojava insieme a Isis. Vogliono distruggere quanto creato dall’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est: un modello di democrazia che dovrebbe invece essere sostenuto, come soluzione al conflitto siriano e come esempio per l’intero pianeta. Erdogan sta aggredendo l’idea di convivenza pacifica, di democrazia, di liberazione delle donne. Siamo qui per dire con forza: non permetteremo che questo avvenga».