Nel carcere di Evin, Teheran nord, ieri sera era in corso un incendio. Sono suonate le sirene, quelle per dichiarare una evasione. Nei video in rete, lanci di lacrimogeni e automobili che si dirigono verso Evin urlando morte a Khamenei (il leader supremo). Alcuni detenuti sono saliti sul tetto per evitare le fiamme.

La televisione di Stato dice che è tutto sotto controllo. Secondo l’agenzia Irna, che cita un alto funzionario della sicurezza di Teheran, ci sarebbe stata una lite tra i prigionieri e il personale del carcere di Evin, dopo che aveva preso a fuoco il deposito di abiti dei detenuti.

LA LITE avrebbe avuto luogo tra alcuni prigionieri in carcere per crimini finanziari, e quindi non quella in cui sono rinchiusi l’ex deputata Faezeh Hashemi Rafsanjani, gli attivisti e gli ostaggi stranieri, accusati di propaganda contro lo stato e spionaggio. Nulla si sa, per ora delle vere cause dell’incendio.

Intanto ieri è stata ancora giornata di proteste a Teheran, Karaj, Rasht, Ardebil, Ahvaz, Mashhad. «Donna, vita, libertà» è stato lo slogan più urlato da liceali e studenti di vari atenei, da Teheran a Marivan, fino a Isfahan. Ad Ardebil mercoledì una studente è morta in ospedale dopo essere stata picchiata dalle forze di sicurezza, un altro versa in condizioni critiche.

Nella capitale, vicino a piazza Vali Asr ieri c’era un palco con la musica religiosa. I pullman hanno portato gente da fuori. Uomini e donne, coperte da capo a piedi con il chador. Sembrava la fiera del nero.

Non erano numerosi, ma dalle foto sui media di regime, sembravano tanti. Merito di Photoshop. Il giorno della nascita del profeta Mohammed è diventato pretesto per una contromanifestazione, a favore della Repubblica islamica.

SE IERI LA GENTE da fuori era arrivata nella capitale, sui bus, è solo perché – in cambio – aveva ricevuto un po’ di soldi. In Iran, funziona così. E la letteratura persiana contemporanea, al femminile, lo racconta bene: nel recentissimo romanzo L’ultimo gioco di Banu, la scrittrice Belgheis Soleymani narra di un’orfana costretta dalla madre a sposare un uomo di regime, un religioso colpevole di aver mandato a morte tanta gente.

Da quell’uomo, la madre ottiene denaro. Ed è elargendo toman, aumentando stipendi e pensioni dei dipendenti pubblici e dei militari, che le autorità della Repubblica islamica pensano di poter sedare le proteste in corso.

Queste contestazioni sono però diverse da quelle dei decenni precedenti: «È la prima volta che gli uomini sostengono le donne. Nella storia dell’Iran, non era mai successo. Credo che le proteste porteranno a un cambiamento, al rovesciamento di questo regime. I miei amici in Iran dicono che non si tratta solo di proteste: è una rivoluzione. Siamo stanchi di questo governo corrotto e brutale, incapace di far fronte alle emergenze, incluse quelle climatiche», osserva l’attivista per i diritti umani Shaparak Shajarizadeh.

Nel 2017 era stata protagonista dei «mercoledì bianchi» di protesta: era salita sopra a un blocco di cemento, si era tolta il velo, lo aveva messo su un bastone e lo aveva sventolato.

Per questo, era stata arrestata: «Sono stata detenuta anch’io nel centro di detenzione dov’è morta Mahsa Amini. Per me e per molti altri è stato subito ovvio che era stata uccisa. Ero stata rinchiusa in cella di isolamento e il mio avvocato Nasrin Sotoudeh mi ha liberata su cauzione. Ero molto arrabbiata, per la violenza subita e per quello che avevo visto. Ne parlavo in giro e, per questo, mi hanno riportata nella prigione di Evin. Ma non avevano nulla da rimproverarmi e quindi mi avevano liberato».

«ERO STATA FUORI città e mi avevano fermata di nuovo con mio figlio. Aveva nove anni, si era spaventato moltissimo. Lo avevano tenuto sei ore nella stanza dove mi interrogavano. Ammanettata, davanti al bambino. Avevo iniziato lo sciopero della fame e dopo qualche giorno mi ero rifiutata di bere. Mi avevano rimandata a Teheran e il mio avvocato aveva pagato la cauzione per scarcerarmi. Ero traumatizzata, consapevole che avrebbero fatto del male alla mia famiglia. Ho lasciato l’Iran, illegalmente, con l’aiuto di trafficanti. Non mi sono presentata al processo. Sono stata condannata a 20 anni e a ulteriori 18 se avessi ripetuto il reato, ovvero mi fossi ripresentata in pubblico, o anche solo sui social, senza velo».

In persiano, Shaparak vuole dire «farfalla». Ha 47 anni ed è passata dalla disobbedienza civile alla protesta sulla scia del movimento «My Stealthy Freedom» lanciato nel 2014 dalla giornalista Masih Alinejad, esule negli Usa: «La sua pagina su Facebook è diventata una piattaforma su cui caricare le nostre foto e video senza velo».

«Le proteste sono un sogno che si avvera. L’hejab è il simbolo della violenza sistematica contro le iraniane, non avrei mai immaginato che in tante sarebbero scese in strada senza velo». Le proteste in corso non hanno un leader, ma forse nell’era di Internet e dei social media non è un problema.

«IL MOVIMENTO #MeToo si è diffuso rapidamente, in tutto il mondo, pur non avendo un capo. Non è necessario. Milioni di donne si sono riconosciute nelle rivendicazioni, così com’è accaduto per il movimento Black Lives Matter. In Iran non abbiamo bisogno di un leader. Reclamiamo libertà, diritti civili e tutto quello che ci è stato tolto con l’istituzione della Repubblica islamica nel 1979», conclude Shaparak Shajarizadeh.

Sabato 22 ottobre sarà ospite – in collegamento dal Canada – dell’evento Iran, il fuoco della libertà al Festival «L’eredità delle donne» diretto da Serena Dandini (a Firenze dalle 17.15 alle 18.30).