Malgrado ami presentarli come ispirati alla struttura sincopata del jazz, che ascolta fin dall’adolescenza, e che a «una dichiarazione di apertura, la melodia», fa seguire una serie di improvvisazioni di segno ben diverso, è forte la sensazione che i racconti riuniti da Don Winslow in Broken (HarperCollins, pp. 536, euro 20, traduzione di Alfredo Colitto e Giuseppe Costigliola) riflettano soprattutto lo stato d’animo rabbioso e dolente che si respira oggi in America.

Lasciatosi alle spalle la Trilogia del Cartello e il cupo bilancio della «War on Drugs», come l’immersione totale nel marciume newyorkese di Corruzione (Einaudi), dove, tra immobiliaristi miliardari e poliziotti violenti, ha costruito quasi un prequel della realtà sociale odierna, lo scrittore, considerato tra i protagonisti del poliziesco degli ultimi decenni, dà voce a un Paese spaccato, sul punto di andare in frantumi.

In sei splendide storie, pensate almeno in parte come altrettanti tributi a Raymond Chandler, Elmore Leonard e Steve McQueen, un pugno di personaggi – alcuni inediti, altri che riecheggiano dall’album di famiglia della sua vasta produzione – un ex investigatore privato, un cowboy, un surfista, un appassionato di jazz, un giornalista che studia i narcos e un rapinatore si misurano con la perdita, la vendetta, la violenza e il razzismo. Sorprendendosi nel riuscire a trovare ancora una traccia di umanità in sé stessi, nonostante tutto.

«Broken» è la sua prima raccolta di racconti, come si fa a «cambiare marcia» dopo aver scritto per anni romanzi dal taglio epico di centinaia e centinaia di pagine?

È stato piacevole adottare un altro ritmo narrativo, penso che uno scrittore debba farlo di tanto in tanto. Per la maggior parte degli ultimi vent’anni ho gestito qualcosa che assomigliava a delle maratone letterarie, romanzi molto lunghi e di portata epica. Questa volta invece ho pensato a un formato che non richiedesse necessariamente la brutale efficienza di una storia in cui una sola parola può trasformare le cose, dove ci fosse comunque spazio e tempo per lo sviluppo di un personaggio e persino un po’ di umorismo, ma dove tutto si svolgesse verso una sola direzione e soprattutto in fretta.

Alcuni racconti rendono omaggio a grandi figure del passato come Chandler, Leonard, McQueen. Non sembrano solo dediche, ma dei rimandi allo stile e alle atmosfere di quei personaggi.

È andata proprio così. Ad esempio, ho amato moltissimo Steve McQueen che ai miei occhi incarnava il volto «cool» della California e mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se avessi creato un personaggio che si ispirava a lui. Ho pensato a qualche ladro e criminale «gentile» di quelli che ho incontrato quando facevo l’investigatore privato, gente decisamente migliore dei banditi veri che si incontrano a Wall Street o al Congresso. E così è nato Davis, il rapinatore della 101, la Pacific Coast Highway. Percorrendo quella strada, quando sono arrivato dall’East Coast, ho deciso che non me ne sarei più andato da San Diego.

[do action=”citazione”]Purtroppo non c’è nulla di nuovo nell’omicidio di George Floyd. Scrivo da anni della violenza e del razzismo della polizia. La vera novità sta nella forza della reazione pubblica[/do]

Poi c’è Elmore Leonard…

Lui era il mio eroe. Quando ero un ragazzo che pensava di scrivere «da grande» speravo che prima o poi sarei stato in grado di catturare l’atmosfera bizzarra in cui si muovono i suoi personaggi. Più tardi, dopo il mio primo libro, il mio agente pensò al progetto di un film da realizzare insieme e così un bel giorno squillò il telefono e dall’altra parte c’era proprio Leonard. In casa non avevo campo e così uscii in strada. Credo di non aver detto più di cinque parole, parlò solo lui. Ero talmente emozionato che non mi sono neanche accorto che stava piovendo. Sono rimasto per un’ora di fila sotto la pioggia a sentire la sua voce. Ma sarei rimasto lì anche tutto il giorno.

Don Winslow

In «Sunset», il racconto dedicato a Chandler, si respira un sentimento di perdita, qualcosa che incrociato con la nostalgia per il jazz West Coast degli anni ’50 che ascolta il protagonista sembra rimandare a certe immagini di Marlowe intrise di malinconia.

Sì, è una storia costruita intorno alla perdita: quella di un coniuge molto amato, della giovinezza, di una professione, di un’età più innocente, di un profilo da eroe. Ecco perché i tramonti hanno sempre un sapore agrodolce: sono belli, certo, ma segnano pur sempre la fine di un altro giorno, come dice il protagonista del racconto. E con questo siamo in pieno nello spirito di Marlowe, così come emerge da Il lungo addio, la più grande storia di detective che sia mai stata scritta. Un omaggio esplicito a Chandler, che tra l’altro ha scritto tutti i suoi grandi romanzi su Los Angeles mentre viveva nella mia amata San Diego. Ho visitato la sua casa l’anno scorso. È stato come andare in chiesa. Comunque il senso di perdita che provo ora va anche al di là di questi riferimenti: quest’anno ho perso troppe persone a cui tenevo, ma se mi guardo intorno credo che un po’ tutti stiano perdendo qualcosa. Sono tempi duri e brutali e spesso guardo il tramonto con un senso di tristezza.

Il protagonista dell’ultimo racconto vive in Texas, vicino alla frontiera messicana e non si può certo definire un uomo di sinistra. Eppure quando vede i piccoli migranti «irregolari» rinchiusi nelle gabbie sente montare in lui l’orrore e la rabbia.

Perché per chi vive «la frontiera» le cose sono spesso molto diverse da come siamo abituati a sentirle raccontare. Alcune delle famiglie ispaniche della mia città sono qui da prima che questa zona diventasse parte degli Stati Uniti. Sediamo negli stessi consigli scolastici e comitati di quartiere, andiamo alle feste di compleanno e ai funerali insieme. Abbiamo lavorato fianco a fianco per difendere la città dagli enormi incendi che hanno sconvolto la California solo due anni fa. Perciò divento furioso quando qualche politico cretino li chiama ladri, stupratori e assassini: queste sono persone meravigliose e laboriose. Qui da noi non c’è alcuna «invasione». Al massimo, grazie alla cultura messicana mangiamo qualche specialità culinaria in più.

Vivo vicino al confine, in una zona rurale molto conservatrice e di recente, per la prima volta, ho sentito questi allevatori redneck esprimere repulsione per alcune delle orribili idee di «baby Donald»

Nel romanzo «Il confine» un personaggio che assomiglia all’attuale presidente americano dichiara guerra alla droga mentre fa affari con i narcos. Lei non ha mai nascosto di pensare il peggio possibile di Trump – come politico e imprenditore. Come guarda alle elezioni di novembre, gli americani riusciranno a liberarsene?

Il Paese non può sopravvivere ad altri quattro anni di governo di questo ignorante aspirante dittatore da quattro soldi con il suo ego debole e infinitamente bisognoso di attenzione. Da questo punto di vista nutro una certa speranza. Vivo vicino al confine, in una zona rurale molto conservatrice e di recente, per la prima volta, ho sentito questi allevatori redneck esprimere repulsione per alcune delle orribili idee di «baby Donald». Allo stesso modo, ho visto manifestarsi il loro disgusto per l’omicidio di George Floyd. Ora, ciò di cui abbiamo bisogno per cacciare Trump è l’affluenza e la vigilanza degli elettori ai seggi. I repubblicani sanno che non possono vincere queste elezioni onestamente, quindi faranno tutto il possibile per sopprimere in qualche modo il diritto di voto e annullarne quanti più possibile tra quelli a loro contrari. Dovremo combattere con ogni mezzo e senza paura.

Nei suoi romanzi non mancano esempi di poliziotti corrotti, violenti o razzisti – su tutti i protagonisti di «Corruzione». Ma quanto è difficile scrivere della polizia americana dopo vicende terribili come quella di cui è stato vittima George Floyd?

In effetti ho già scritto del «marcio» della polizia americana e di quanti razzisti e corrotti vi siano nelle sue fila. E di come tutto questo dipenda anche dai responsabili e dai dirigenti che guidano le forze dell’ordine e decidono in qualche modo del loro funzionamento. Purtroppo, non c’è nulla di nuovo nell’omicidio di George Floyd. Ne stiamo scrivendo da anni. La vera novità è la reazione pubblica che ha fatto seguito a questa ennesima morte per mano degli agenti e che potrebbe essere abbastanza forte da influenzare alcuni cambiamenti di fondo nella nostra società. Ma la scrittura, quella non cambia. Il lavoro è sempre lo stesso: scrivere della vita come la vediamo con ciò che ha di bello, di brutto, di giusto come di ingiusto, di nobile, ma anche di ignobile e terribile. E sì, anche di violento e razzista. Perciò, devo dire che non ho mai idealizzato né demonizzato i poliziotti, semplicemente provo a scriverne così come sono. O come almeno mi appaiono.