«È una sconfitta, bisogna riconoscerlo. Però parlare di débacle mi sembra eccessivo». Forse non può dire altro Giorgia Meloni, leader al momento del primo partito della coalizione di destra, Fratelli d’Italia. Ma la bugia suona lo stesso stridente. Cosa ci vuole di più del cappotto in tutte le grandi città col rischio sfiorato di perdere persino la sicurissima Trieste, del candidato sulla piazza di Roma travolto dal rivale, di quello di Milano che nemmeno arriva al ballottaggio, della littoria Latina conquistata dagli avversari, per parlare di débacle?

MA FORSE IL VERO segno della disfatta della destra non è neppure nel bollettino modello Caporetto: è nell’incapacità di azzardare anche un principio d’analisi del disastro, che gemella sorella Giorgia e il fratellone leghista Matteo Salvini. Tutta una questione di tempi. I candidati erano quelli giusti, anche se la prossima volta «saranno politici»: è mancato solo il tempo perché sconosciuti provenienti della società civile s’imponessero al colto e all’inclita. Seguono raffiche di giustificazioni, alibi, letture che tendono a minimizzare e a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tutte o quasi vere ma anche insufficienti a spiegare la rotta.

SALVINI PROVA quasi a cantare vittoria: «Abbiamo più sindaci di quindici giorni fa». Il commento di Enrico Letta, «surreale», è impeccabile. Se la prende con l’inchiesta sull’ex commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri resa nota a urne quasi chiuse, con le accuse di fascismo che «ormai sta solo sui libri di storia», mitraglia la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e non si capisce cosa c’entri ma tant’è, la caciara fa comodo. Senza contare il famigerato fattore tempo, dimenticando che soprattutto Enrico Michetti a Roma con più tempo a disposizione avrebbe probabilmente fatto danni anche maggiori di quelli già cospicui procurati tra una farneticazione e l’altra.

MELONI È PIÙ AUSTERA. Segnala che il danno è stato soprattutto al ballottaggio. Per forza: «I tre partiti hanno posizioni diverse, un pezzo di centrodestra governa col centrosinistra. Ovvio che dovendo votare un candidato unico al ballottaggio gli elettori siano disorientati». Poi naturalmente la campagna «di criminalizzazione», che ha «imbarbarito tutto». E il tasto davvero dolente dell’astensionismo, sul quale aveva già battuto il leghista: «Quando a Roma il sindaco viene eletto con percentuali come queste significa che c’è una crisi della democrazia». Molto di vero, appunto, ma usato per falsificare. Quando si arriva alla ferita aperta, la sfida cieca per il primato che ha spinto la destra verso l’abisso e determinato la scelta folle dei candidati peggiori che si potessero immaginare, Salvini glissa, Meloni nega: «La leggiamo tutti i giorni sui giornali questa storia ma è falsa e sapeste quante volte io e Salvini ci sentiamo la mattina e ce lo diciamo».

DAGLI ORMAI desertificati spalti di Forza Italia arrivano analisi più precise, viene additata la mancanza di una leadership, l’incapacità dimostrata da entrambi i capi dei partiti maggiori di assolvere al compito. Diagnosi esatta, cura improponibile: dovrebbe tornare Silvio il federatore. Un attestato di piena impotenza. Nella destra sconfitta dunque, almeno per ora, non cambierà nulla. I leader si incontreranno, parola di Matteo e Giorgia, e ci mancherebbe altro. Cercheranno di individuare per tempo i prossimi candidati, ma senza raddrizzare il metodo, senza provare a diventare una vera coalizione, servirà a ben poco.

NEPPURE NEI RAPPORTI della Lega col governo ci saranno variazioni. La cifra ambigua scelta dal capo non piace a nessuno. Troppo governista per gli uni, troppo frondista per gli altri. Ma la forza per fare a meno del frontman non c’è né da una parte né dall’altra del Carroccio, e senza di lui la convivenza tra le due anime diventerebbe impossibile. Salvini è intoccabile e di conseguenza lo è anche la sua ambiguità. Le bordate contro Lamorgese e la difesa strenua di Quota 100 indicano che intende proseguire sullo stesso sentiero, oscillando tra stentoree dichiarazioni di lealtà al governo e sparate da leader dell’opposizione puntualmente smentite dai fatti.

DALL’ALTRA PARTE della barricata, Enrico Letta è premiato dalla sua strategia dimessa, alzare i toni su questioni che con l’agenda del governo c’entrano pochissimo e per il resto lasciar fare a Mario Draghi. Senza una sterzata di Salvini non modificherà quella strategia neppure lui, cercando di mettere in campo una vera proposta politica. Ma per questa via la sirena d’allarme suonata a distesa dall’astensionismo resterà inascoltata, il distacco dalla politica si farà ancora più massiccio.