Dirty, Difficult, Dangerous, «Sporco, difficile, pericoloso»: il titolo sembra contenere il paesaggio emozionale che abitano i due protagonisti, Beirut oggi e insieme fuori dal tempo, fatto di miseria e di costrizione, bersagliato dal disprezzo e dallo sfruttamento. Wissam Charaf, il regista, presenta il suo film – che è stato alle Giornate degli autori di Venezia lo scorso anno prima di arrivare adesso in sala – come «la storia di due angeli», i personaggi di Mehdia e Ahmed. Lei è una ragazza etiope «comprata» tramite agenzia da una ricca signora libanese per occuparsi del marito, un colonnello in pensione ormai fuori di testa, che passa da momenti di gentilezza a improvvise crisi di aggressività – quasi un Nosferatu che porta in sé la violenza della guerra civile libanese e delle sue azioni. Ahmed è invece un profugo siriano che vende ferro in giro per la città.

Charaf che è libanese e ha lavorato nelle zone di guerra come reporter per Arte realizzando e realizzato numerosi cortometraggi fino all’esordio con Heaven Sent (2016) in questa sua opera seconda continua a rifondare l’immaginario del proprio Paese «spostandolo» dalla memoria della guerra civile, con cui spesso coincide, alla realtà di oggi. E il suo centro e punto di partenza sono i migranti senza diritti e quel cinismo sociale diffuso che si accanisce contro i nuovi «senza terra», in particolare appunto i siriani fuggiti dal conflitto di questi anni e lì emarginati, messi sotto controllo (subiscono il coprifuoco), privati di ogni diritto, costretti a lavorare per paghe irrisorie e a vivere in vecchi ruderi e in accampamenti disgraziati – quasi un riflesso speculare della situazione vissuta prima di loro e mai risolta dei profughi palestinesi che ancora dopo decenni non hanno diritti civili.
La regia di Charaf «traduce» la realtà in una dimensione fantastica, un melodramma di cuori spezzati e in gabbia nei cui sogni negati si specchia la società contemporanea disegnando la metafora di una condizione universale. Ragazza-incontra-ragazzo: Mehdia (Clara Couturet) si innamora di Ahmed (Ziad Jallad) appena sente la sua voce giù in strada che grida: «Ferro, ferro…».

LA FELICITÀ sono i loro incontri clandestini, i baci nascosti o rubati perché la ragazza non può uscire dalla casa in cui lavora – se non per finire richiusa in qualche cella dall’uomo che ne ha disposto l’arrivo in Libano e che le ha tolto il passaporto. Questione di soldi in quel business dei corpi che è uno dei perni dell’economia attuale sul quale il regista «scrive» memorie e vissuti, la storia del presente e il desiderio impossibile di futuro. Vorrebbero fuggire, vorrebbero vivere il loro amore ma come uscire da quella «prigione» che è il Paese in cui si trovano o forse tutto ciò che li circonda? Poi lei vince un premio, un soggiorno in una spa di lusso. Ma Ahmed ha il corpo pieno di ferro che spunta dalla carne in un colore bruno arrugginito, sono i segni delle bombe e delle schegge che ha patito nel conflitto siriano e forse anche di qualcos’altro: come un Tetsuo vive una mutazione che afferma il grido dell’esistenza, di essere guardati, di essere nel mondo che in quanto umani sembra ormai rigettarli. O quanto meno che li ha resi oggetti, neppure macchine, merce di scambio, svuotati della libertà di scegliere, utilizzati e gettati via.

COSA conta allora in questa lotta che li unisce? E cosa rimane? Loro due, il loro incontro, il legame in cui possono trovare forza e resistenza e forse anche un nuovo orizzonte altrove. Delicato nel maneggiare i temi del nostro tempo, Dirty, Difficult, Dangerous li affronta attraverso una ricerca formale con la quale riesce poeticamente a inventare mondi e figure quasi archetipe di un quotidiano tragico e crudele in cui sembra sparito ogni sentimento di compassione. È il Libano con una linea che intreccia storia e attualità, ma è anche la realtà contemporanea che percorrono nella loro «fuga» i due ragazzi, con una speciale leggerezza nonostante tutto in cui Charaf mette alla prova il senso del cinema e la sua necessità.