I contatti con il mondo esterno, attraverso i rapporti con famiglia e la tutela degli affetti, rappresentano il “biglietto da visita” di un ordinamento penitenziario che persegua l’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto. Questi lunghi mesi di pandemia nelle carceri italiane sono stati segnati da bisogni insoddisfatti, mancanza di contatto umano, privazione dei più elementari gesti di intimità, come poter stringere una mano o prendere sulle ginocchia il proprio figlio.

I colloqui, che in passato erano chiassosi e affollati, sono diventati una banco di prova difficile da superare, soprattutto per gli ospiti più piccoli. Da una recente ricerca che stiamo conducendo con l’Università degli Studi di Cassino in alcune carceri laziali, emerge che tanti bambini, a differenza del passato, non vogliano più entrare in carcere per far visita al loro genitore e che anche i rapporti della persona detenuta con il/la partner siano diventati più formali, meno autentici. Complice un plexiglass, spesso rovinato, che rende sfocate persino le immagini dei propri familiari.

Un ordinamento penitenziario senza luoghi, tempi e spazi adeguati a garantire il mantenimento di relazioni affettive significative, oltre a produrre i suoi effetti nei confronti dei familiari, spesso “vittime dimenticate”, rischia di compromettere la salute psico-fisica dei detenuti, come sottolineato dallo stesso Comitato italiano di Bioetica nella relazione del 2019 “Salute dentro le mura”, dove salute e diritto all’affettività, vengono posti sullo stesso piano; quasi che siano da considerarsi complementari.

Eppure ogni volta che si cerca di introdurre nel dibattito politico la necessità di uno slancio riformatore in grado di affermare quei diritti “castrati” che fuori dall’Italia sono pacificamente acquisiti, le resistenze non tardano a palesarsi. È quanto sta accadendo con il disegno di legge n. 1876, a tutela delle relazioni affettive intime dei detenuti, su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana, in discussione in Commissione Giustizia e che ha come relatrice la sen. Monica Cirinnà. Si tratta di una proposta che colma una lacuna del Regolamento del 2000 e che finalmente recepisce l’invito della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 301 del 2012 spingeva il Parlamento a legiferare. Sono quattro articoli che potrebbero mutare profondamente la qualità della vita di migliaia di detenuti.

Sono previste piccole unità abitative senza controllo visivo, viene regolamentato il diritto di visita (una volta al mese per un tempo che va da un minimo di 6 ad un massimo di 24 ore), i permessi familiari vengono previsti non più per gravi motivi ma per eventi rilevanti; viene aumentata la durata e la frequenza delle telefonate, quotidiane e con un tempo che va da 10 a 20 minuti. È infine previsto, molto realisticamente, un tempo di sperimentazione utile per l’adeguamento generalizzato alle nuove norme.

Il nostro Parlamento sarà in grado di alzare lo sguardo, proiettandolo verso l’orizzonte delle numerose esperienze europee ed internazionali? Riuscirà ad abbandonare quella visione provinciale che troppo spesso sta caratterizzando la discussione?

Stavolta anche il Governo dovrebbe fare la sua parte in questa che è, innanzitutto, una battaglia di diritto costituzionale. La ministra della Giustizia Cartabia, nella sua veste di Giudice costituzionale, rivolgendosi ai detenuti del carcere romano di Rebibbia, in un incontro tenutosi il 4 ottobre 2018, affermava: «Incidere sui rapporti familiari significa spostare l’afflittività della pena anche su persone che non hanno commesso reati. Quando si incide su quel rapporto, si tocca la vita non di una sola persona, ma anche quella di innocenti, tanto più se sono minori».

È proprio il momento per riprendere coraggiose riforme del carcere. Questa è una buona occasione.