La regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, è divenuta negli ultimi anni leader mondiale nella produzione del cloruro di polivinile, meglio conosciuto come PVC: una materia plastica molto nota nel settore dell’edilizia e dell’imballaggio per la piena riciclabilità e i costi vantaggiosi che assicura ai prodotti che compone.

Il rapporto Built on repression – PVC building materials reliance on labor and environmental abuses in the Uyghur region, elaborato dall’Helena Kennedy Centre for International Justice in collaborazione con Material Research, analizza come il lavoro forzato di uiguri e di altre minoranze etniche che abitano la regione abbia contribuito al primato dello Xinjiang nella produzione di PVC e come questa stia determinando alti livelli di inquinamento ambientale.

Nella regione si registra una capacità produttiva pari a 4,12 milioni di tonnellate, più del 16% della capacità totale di produzione di PVC della Cina (stimata 25,1 milioni di tonnellate nel 2019). Le due più grandi industrie del settore, la Xinjiang Zhongtai Chemical e la Xinjiang Tianye, sono compagnie appartenenti allo Stato che producono rispettivamente 2,33 e 1,4 milioni di tonnellate all’anno di PVC. Si stima che nella regione uigura sia prodotto circa il 10% di tutta la produzione a livello mondiale di PVC (41,8 milioni nel 2019).

La Xinjiang Zhongtai Group, di cui la Zhongtai Chemical fa parte, è la principale compagnia di cloruro di polivinile della regione. Oltre al PVC, si occupa della gestione di scuole professionali che formano i lavoratori rurali in eccesso dello Xinjiang, poi impiegati come operai nelle industrie.

Il passo successivo è il loro trasferimento: «I rapporti rivelano chiari indicatori che i nativi trasferiti dallo Xuar meridionale non stanno lavorando volontariamente per Zhongtai». A oggi si contano più di 5mila cittadini trasferiti.

Adrian Zenz, antropologo tedesco tra i massimi studiosi al mondo delle politiche di governo adottate nello Xinjiang, spiega nel suo studio pubblicato a marzo 2021 che il programma di trasferimento del lavoro ha l’obiettivo ufficiale di «ridurre la povertà», perseguito con indottrinamento politico, disciplina del lavoro, conoscenza della lingua cinese.

Quello ufficioso, come emerge dal Rapporto Nankai elaborato dall’Università omonima, che le «regioni orientali e centrali della Cina dovrebbero ricevere quote annuali obbligatorie di lavoratori dello Xinjiang, il che aiuta notevolmente ad alleviare la carenza di lavoratori in [queste regioni] e riduce adeguatamente i costi del lavoro».

Uiguri a Istanbul protestano contro Pechino (Epa/Tolga Bozoglu)

Non ultimo, quello di assimilare le minoranze etnico-religiose alla predominante etnia han. Secondo Zenz, i trasferimenti di lavoro sono da ricomprendere nella definizione che l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) dà del lavoro forzato: «Ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente». Sarebbero 1,6 milioni i lavoratori rurali in eccesso nello Xinjiang che rischiano di essere ridotti a lavoro forzato.

A complicare lo scenario, la salute delle persone e dell’ambiente che la produzione di PVC sta compromettendo nella regione nord-occidentale: l’Helena Kennedy Centre, citando i calcoli della Banca mondiale, segnala che ogni anno vengono usate circa 358 tonnellate di mercurio, di cui 9,9 tonnellate rilasciate nell’aria. Si calcola che nel 2021 gli impianti di PVC nello Xinjiang abbiano consumato il 15% di tutto il mercurio prodotto nel mondo (2.300 tonnellate).

Ma a cosa serve il mercurio nella produzione di PVC? Nelle industrie cinesi, la sostanza chimica che compone il PVC, il cloruro di vinile (VCM), si ottiene col metodo del carburo di calcio, che prevede l’uso del carbone e di un catalizzatore a base di mercurio che lo fa reagire con il cloro.

Nell’Unione europea, con l’entrata in vigore nel 2017 della Convenzione di Minamata adottata per ridurre l’inquinamento e avvelenamento da mercurio, e dopo che il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato il regolamento 2017/852 integrativo della Convenzione, si è cominciato a ridurre il mercurio nei suoi utilizzi chimico-industriali.

Si è avuta così la sostituzione progressiva delle celle a mercurio nel processo cloro-soda – processo chimico per ottenere il cloro – con le più sicure, efficaci ed efficienti celle a membrana. Una riconversione che ha ridotto il consumo di energia (-25%) che la produzione del cloro richiedeva, e le relative emissioni di CO2.

In Europa si adotta in generale il metodo dell’etilene, che fa ricorso all’etilene ottenuto dal cracking termico (rottura delle molecole grandi in molecole più piccole) del gas naturale o del petrolio e fatto reagire con il cloro. Nello Xinjiang, invece, si opta per il metodo più inquinante ed economico: il carbone è la fonte energetica responsabile di più del 40% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo e il suo prezzo, dati i vasti giacimenti di cui la Cina dispone, non è soggetto alle stesse oscillazioni del petrolio o del gas naturale nel mercato internazionale.

Gli impianti di PVC, alimentati a carbone, rilasciano nell’ambiente circa 49 milioni di tonnellate di gas serra. La Cina è il paese dove si registra un terzo (575.205 kg) delle emissioni di mercurio nel mondo (1.875.490 kg) e dove la combustione del carbone figura come primo responsabile dell’inquinamento da mercurio (emissioni pari a 179,557 kg).

Jim Vallette, presidente di Material Research, ha dichiarato a The Intercept: «In quelle condizioni, dove lo Stato ha il controllo della produzione e non vi è modo di tener conto degli impatti, è quasi inimmaginabile quello che sta accadendo. Non c’è niente di simile sulla Terra nella combinazione di clima e inquinamento tossico. E i lavoratori vivono lì 24 ore su 24, sette giorni su sette».

Lavoro forzato, minaccia alla salute delle persone e dell’ambiente, eppure la produzione di PVC potrebbe riuscire ad agire indisturbata, superando i divieti di accesso alle frontiere imposti alle merci prodotte con il lavoro forzato che i governi stanno cominciando ad adottare.

Negli Usa è entrato in vigore nel giugno scorso l’Uyghur Forced Labour Prevention Act, una legge che proibisce ai sensi del Tariff Act del 1930 l’importazione di merci prodotte nello Xinjiang, negando ai beni cinesi il diritto d’ingresso in territorio statunitense. Legge che potrebbe essere elusa grazie alle intermediazioni di terzi: la resina di PVC prodotta dalla Xinjiang Zhongtai viene spedita ai produttori vietnamiti di pavimenti, come Jufeng New Materials, che vendono i propri manufatti ai principali marchi di pavimenti statunitensi.

La resina di PVC cinese ha determinato negli ultimi anni un aumento delle esportazioni dei pavimenti «in vinile», passando da una produzione di 1,39 milioni di tonnellate nel 2014 a 4,03 milioni di tonnellate nel 2019, con una crescita media annua superiore al 20%. Nel 2019, i principali paesi importatori di pavimenti in PVC cinesi erano Stati uniti (57,17%), Canada (6%) e Germania (4,47%), secondo l’Analysis of the Chinese PVC Industry del marzo 2021.

«Negli ultimi due anni l’industria dei materiali impiegati nell’edilizia è diventata sempre più dipendente dal PVC prodotto nella regione uigura. Quindi, la maggior parte dei principali rivenditori statunitensi di pavimenti rischiano di vendere prodotti realizzati con il lavoro forzato. Questo è un campanello d’allarme – non solo per il settore edile, ma per tutti i settori – per la trasparenza della catena di approvvigionamento», ha affermato Laura T. Murphy, una delle autrici del rapporto.

Come spiega l’Oil in Global Estimates of Modern Slavery: Forced Labour and Forced Marriage del settembre 2022, il lavoro forzato è una forma di «schiavitù moderna» che interessa attualmente 27,6 milioni di persone nel mondo. La comunità globale si è impegnata a porre fine alla schiavitù moderna (nel 2022, 49,6 milioni di persone) entro il 2030.

Intanto la Cina ha ratificato il 12 agosto scorso la Convenzione sul lavoro forzato del 1930 e quello sull’abolizione del lavoro forzato del 1957, riconoscendo il divieto all’uso del lavoro forzato in tutte le sue forme e chiedendo «l’immediata abolizione del lavoro obbligatorio come mezzo di coercizione politica, o educazione o punizione per l’espressione di opinioni politiche».

Chen Xu, rappresentante permanente della Repubblica popolare cinese, ha dichiarato: «La Cina attribuisce grande importanza alla protezione dei diritti e degli interessi dei lavoratori. Adottiamo un atteggiamento positivo, serio e responsabile nei confronti della ratifica delle Convenzioni internazionali sul lavoro».

Dopo poche settimane, la ex Alta commissaria Onu per i diritti umani Michelle Bachelet pubblicava il 31 agosto un report molto atteso da attivisti di tutto il mondo sulle «gravi violazioni di diritti umani» – tra cui trasferimento e lavoro forzato – a cui uiguri, kirghisi, kazaki, hui, daur, manciù, mongoli, tagiki, xibe, russi, tatari, uzbeki, sono costretti. La Commissione europea, dal suo canto, ha proposto lo scorso settembre il divieto dei prodotti realizzati con il lavoro forzato.

La società civile globale è da sempre impegnata a fare pressione sul governo cinese per mettere fine al lavoro forzato, come dimostra la petizione Free Uyghurs from forced labor in China, che mira alle 100mila sottoscrizioni, e la coalizione australiana Be Slavery Free che chiede al governo federale australiano di bloccare le merci prodotte dal lavoro forzato uiguro, non ultim, la fine del lavoro forzato per la produzione di PVC.