All’inizio degli anni ’50, fresca di indipendenza dall’Impero britannico, l’India che si affacciava alle sfide del futuro per la prima volta pienamente responsabile del proprio destino ebbe la lungimiranza di attrezzarsi per tempo nella corsa allo sviluppo tecnologico globale.

Grazie al sostegno di un’intellighenzia al potere ora a tutti gli effetti indiana, ma forte di una formazione anche extra subcontinentale, il governo indiano presieduto da Jawaharlal Nehru decise di fondare e sovvenzionare una serie di istituti d’eccellenza in grado di istruire e addestrare le menti del domani, la forza propulsiva che avrebbe trainato un Paese dilaniato dall’esperienza coloniale fuori dalla miseria collettiva. Si tratta dei celeberrimi Indian Insitute of Technologies, meglio noti come IITs, università che nei decenni hanno prodotto una grossa fetta di tecnici visionari, presto «cervelli in fuga», e un esercito di sviluppatori e informatici, l’ossatura del miracolo dell’IT subcontinentale.

La stessa lungimiranza sembra però non essersi riproposta per la corsa mondiale alla tecnologia del futuro prossimo, l’Intelligenza artificiale (AI) ormai in procinto di rivoluzionare le nostre vite introducendo la variabile automatizzata nei processi produttivi e nella nostra quotidianità digitale. Mentre Cina e Usa da decenni investono somme ingenti di denaro nella ricerca e sperimentazione di applicazioni pratiche dell’AI, esprimendo già giganti indiscussi del settore come Google, Amazon, Apple, Alibaba e Tencent, l’India solo molto recentemente ha deciso di iniziare la rincorsa allo sviluppo di tecnologie d’avanguardia.
Presentando in parlamento il budget nazionale del 2018, il ministro delle finanze Arun Jaitley lo scorso mese di febbraio ha annunciato che il National Institution for Transforming India promuoverà un programma nazionale di AI con l’obiettivo di fare ricerca e sviluppo in ambiti come la digitalizzazione del Paese, il «machine learning» e la stampa 3D. Con uno stanziamento di fondi pubblici pari a 477 milioni di dollari, il programma governativo per lo sviluppo di tecnologie a intelligenza artificiale agisce sotto l’ombrello della campagna Digital India, biglietto da visita hi-tech del primo ministro Narendra Modi.

La dichiarazione d’intenti del governo Modi segue la visione di un Paese sempre più digitalizzato e moderno, dove l’applicazione di algoritmi renderà l’allocazione di risorse sempre più efficiente, migliorando la vita di tutti i cittadini indiani. Questo almeno è lo slogan, mentre nella realtà di tutti giorni l’unica applicazione – coatta – delle nuove tecnologie capace di coinvolgere in massa la popolazione indiana rimane l’introduzione di Aadhaar, il sistema biometrico di identificazione più grande del mondo già al centro di polemiche durissime da parte di chi denuncia un’architettura digitale di fatto piegata al «sorveglianza di massa» di 1,4 miliardi di persone.

Per il resto, si parli di automazione del lavoro o di diffusione di periferiche «smart» integrate con la rete digitale nazionale, l’India è ancora lontana anni luce dai primi della classe. Kartik Hosanagar, professore di tecnologia e business digitale presso la University of Pennsylvania, ha dichiarato a Quartz: «Dovremmo riconoscere che l’India è così indietro nella corsa che le probabilità di successo sono realisticamente molto basse. L’India potrà finire per diventare un grande consumatore della «new-tech economy» basata sull’AI. Ma sarà un grande produttore, in questa economia? Il contesto attuale ci suggerisce che no, è altamente improbabile». Se è vero che nell’India di oggi la ricerca e lo sviluppo di tecnologie di AI non è del tutto assente, è altrettanto vero che a farla da padroni sono compagnie straniere – in gran parte statunitensi – che nel subcontinente hanno delocalizzato i propri certi di R&D. Le iniziative veramente indiane, indica Quartz, si limitano a poche startup in grado di raccogliere meno di 100 milioni di dollari di fondi tra il 2014 e il 2017. I venture capitalist globali, in sostanza, preferiscono investire altrove.

A parziale discolpa, prendendo in analisi aspetti più popolari delle applicazioni dell’AI come gli assistenti vocali su smartphone, l’India presenta una tale complessità di base da rendere gli investimenti nel settore decisamente poco appetibili per i player internazionali. Ashraff Hathibelagal, su The Diplomat, nota come nonostante in India almeno mezzo miliardo di persone utilizzi uno smartphone, le tecnologie smart tutt’ora taglino fuori gran parte degli utenti. L’assistente di Google installato sui telefoni Android, ad esempio, al momento è disponibile solo in due lingue – inglese e hindi – escludendo l’utilizzo di decine di lingue regionali come «il telugu, parlato da 70 milioni di persone».

Infine, per quanto riguarda l’automazione del lavoro, l’introduzione di macchine che sollevino la manodopera indiana da operazioni logoranti e ripetitive rischia di portare, nel breve termine, più problemi che soluzioni, condannando alla disoccupazione milioni di lavoratori non specializzati impiegati nel settore primario e secondario in un periodo storico in cui la crisi dell’occupazione già pesa enormemente sulla classe lavoratrice nazionale.

Secondo Raghuram Rajan, ex direttore della Banca centrale indiana, l’India non può però perdere l’occasione di diventare «leader delle trasformazioni digitali in corso nel mondo» per paura di shock nel tessuto dell’impiego. La ricetta, esposta da Rajan al Global Digital Summit patrocinato dal governo locale del Kerala, dovrebbe coniugare la progressiva automazione del lavoro all’introduzione di misure del welfare in grado di attutire il colpo: investire nell’istruzione e nella formazione di lavoratori specializzati e, soprattutto, istituire una forma di reddito di base universale in grado di garantire una sicurezza economica a chi, nell’ordine delle centinaia di milioni di persone, in India dall’intelligenza artificiale ha più da perdere che da guadagnare.