«Un Paese con cui l’Italia vanta storiche relazioni, importanti, che io intendo rafforzare ulteriormente». Detto da Giorgia Meloni dell’Etiopia, in Etiopia, può suonare sinistro. Mancando qualsiasi presa di distanza da quanto la storia su queste relazioni racconta, vatti a fidare. Ma certo nessuno poteva aspettarsi che il tabù del termine «fascismo» venisse infranto proprio qui, a Addis Abeba, dove la premier è arrivata ieri mattina per rilanciare la cooperazione con il paese africano e affermare questo nuovo «protagonismo italiano in Africa».

ENERGIA E MIGRANTI in testa alla scaletta, si era detto alla vigilia. Ma i segreti di quel “Piano Mattei per l’Africa” che da qualche tempo il governo italiano va sbandierando verranno svelati solo a ottobre in occasione del vertice intergovernativo Italia-Africa, come ha detto la stessa Meloni ai giornalisti tra un impegno e l’altro della sua agenda di ieri (in sequenza ha visto il presidente di turno dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat, il premier etiope Abiy Ahmed e il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud). Quanto ai migranti, non risulta che i barconi di cui si preoccupa oggi l’Italia partano da laggiù. E c’è poco che si possa chiedere a un paese che dentro i suoi confini conta 823 mila rifugiati e 4,2 milioni di sfollati.

Ma il governo Meloni sembra aver molto da offrire sul piano finanziario e infrastrutturale, senza dimenticare le aspettative del comparto Difesa, dopo che l’esercito etiopico ha svuotato i suoi arsenali sul Tigray. «Sono molte le materie su cui discutere: quella migratoria – ha precisato ieri la premier – è una conseguenza, ma qui sono presenti le nostre aziende con investimenti e infrastrutture, aziende italiane che hanno costruito e stanno costruendo le dighe principali. C’è un sostegno di cui questa nazione ha bisogno, in particolare di tipo finanziario. Ce ne stiamo occupando».

AL MOMENTO L’ETIOPIA sta negoziando con il Fondo monetario internazionale un prestito di oltre 2 miliardi di dollari in cambio di riforme. E Roma che si è già impegnata a fare pressioni per la Tunisia forse intende unificare le due pratiche di sollecito. Si vedrà.

E poi sì, le dighe. Una, la Gibe III sul fiume Omo, «è una catastrofe ambientale e sociale finanziata con le tasse degli italiani» rileva Lifegate. Una grande opera che starebbe «causando danni irreversibili a due siti patrimonio Unesco dell’umanità, cinque parchi nazionali e l’ultima foresta pluviale in una zona desertica dell’Africa»; l’altra, la faraonica Grande diga etiopica del rinascimento (Gerd), è un casus belli aperto con l’Egitto per gli effetti che il suo riempimento avrà a valle, in un paese che letteralmente vive del Nilo. «Tutte le opzioni sono aperte», è la più recente minaccia del Cairo su questa faccenda.

NON SEMBRANO ESATTAMENTE quegli «importanti sviluppi anche in tema di stabilità complessiva della regione» che Meloni immagina grazie al ruolo dell’Italia e al suo rapporto privilegiato con Abiy Ahmed. Famoso per il suo pragmatismo, oltre che per la disinvoltura con cui dopo aver incassato un Nobel per la pace si è imbarcato in una guerra “federale” per normalizzare la regione del Tigray.

Ma è proprio sui concetti di dio- patria-nazione-e-difesa-dei-confini che i due premier ieri hanno potuto trovare la massima convergenza.