Can Dundar guarda la Turchia dalla sua cella. Ne descrive le trasformazioni naturali e imposte, le speranze evaporate e l’impegno politico, racconta la sottocultura plasmata dal regime di Erdogan e le paranoie tipiche di un autoritarismo. E alla fine, quasi da spettatore privilegiato (lo scrive lui stesso, ringraziando il governo che lo ha arrestato di avergli regalato tempo a sufficienza per fermarsi a pensare e capire), tira fuori un diario che sfocia nel romanzo.

SE SI LEGGESSE Arrestati (Nutrimenti, pp. 264, euro 17, presentazione domenica al Salone del libro di Torino) senza sapere chi è Can Dundar, cos’è Cuhmuriyet – il quotidiano di opposizione di cui era direttore – e qual è stato il calvario giudiziario condiviso con il caporedattore Erdem Gul, si scorrerebbero le pagine come fosse una storia inventata. Ed invece in quel diario della prigionia c’è la Turchia del governo Akp e del progetto neo-ottomano del suo presidente. Una prigionia lunga tre mesi, dal novembre 2015 al febbraio 2016, imposta sulla base dei presunti reati di divulgazione di segreto di Stato e sostegno ad organizzazione terroristica: Dundar, sostenuto dalla tutta la redazione, aveva pubblicato, pochi mesi prima, un reportage corredato di fotografie sulla consegna di armi da parte del Mit, i servizi segreti turchi, a gruppi islamisti attivi in Siria.

A DENUNCIARLO era stato lo stesso Erdogan, primo atto di una lunga campagna repressiva contro una delle voci dissidenti del panorama mediatico turco. Dundar e Gul finiscono in prigione, il primo mese e mezzo in isolamento in una cella di 25 metri quadri su due piani e un minuscolo cortile circondato da mura alte 10 metri.

IL LIBRO CHE NE È USCITO, scritto da Dundar come poteva, le prime pagine sui moduli per la cantina del carcere, è immediato e spontaneo. È il resoconto di una prigionia, un lavoro di introspezione, ma anche l’attento esame del lavoro di un giornalista indipendente e l’elogio della scrittura: la penna viene esaltata dal suo possessore come strumento di espressione sì, ma anche come arma di difesa e attacco (Dundar dedica un intero capitolo solo all’arte dello scrivere).
È il racconto quotidiano dell’ingegno umano per sopravvivere all’isolamento, dei trucchi per tenere il corpo più caldo possibile o per evitare che si atrofizzi per il poco movimento, delle tattiche (in alcuni casi suggerite da amici giornalisti incarcerati in precedenza su editoriali diretti al direttore-prigioniero) per lavare i vestiti con una busta che si fa lavatrice o per estrarre il colore dalle riviste che arrivavano in cella.

È ANCHE UNA STORIA della Turchia, narrata attraverso i nomi di chi lo ha preceduto, chi – scrittore, giornalista, dissidente, artista, politico – ha conosciuto la prigione per la propria attività politica lungo tutta la storia contemporanea del paese, da Ataturk all’Akp. Ed è, seppur nascosto tra le righe, l’analisi del concetto più profondo di carcere. Al di là delle ragioni per cui le sbarre vengono imposte – che si tratti di oppositori politici o criminali comuni – l’elemento in più che Dundar trasmette al lettore, forse senza volerlo, è la natura stessa della prigione: la separazione dal mondo, la riduzione dell’essere umano alla sua colpa (vera o presunta), la limitazione della vita quotidiana e l’imposizione del tempo e dei tempi, la costrizione in spazi minimi sia fisici che psicologici e l’omologazione che annulla la specificità del soggetto.

Il prigioniero si riduce al suo corpo fisico, privato della naturale relazione con l’ambiente esterno, la società, l’interazione umana. I gesti quotidiani che Dundar racconta sono quelli di qualsiasi carcere: la famigerata Silvri in Turchia è modello di una forma punitiva universale.
A salvarlo è l’esterno, il mondo fuori che entra nelle ore lente e identiche dalla tv e dai giornali, che raccontano di sit-in, manifestazioni, proteste e gli mostrano i volti dei colleghi, dei compagni e dei familiari.