Ha fatto rumore lo sfondamento della coalizione a guida Meloni anche in Toscana. Ma i voti della destra ricalcano le cifre che la stessa coalizione si è guadagnata a partire dal ventennio berlusconiano. Ciò che dovrebbe far riflettere è il crollo della sinistra.

Fuori da pigri luoghi comuni politicisti, bisogna prendere atto che la “regione rossa” non esiste più da lustri. Ciò che nelle ultime tornate elettorali è venuto meno è stata un’inerzia a favore di gruppi dirigenti che fino ad oggi hanno vissuto, loro sì, al di sopra delle proprie possibilità.

La Toscana rossa nacque tra Resistenza e dopoguerra, quando la sinistra riuscì ad egemonizzare compiutamente il movimento mezzadrile, tanto che la Toscana rossa delle origini era in realtà una campagna rossa, con appendici nelle sparse aree industrializzate e minerarie. La città restava moderata.
In una fase successiva il Pci è stato all’altezza della sfida della grande trasformazione degli anni ’60-‘70, mantenendo appeal sugli immigrati interni, dalle campagne alle fabbriche, e sapendo dialogare coi ceti medi, tanto quelli intellettuali quanto quelli passati dalla condizione subalterna all’artigianato. Risposte all’altezza in termini di guida dei conflitti, servizi offerti dalle amministrazioni locali e formazione di una nuova classe dirigente, spesso proveniente direttamente della classi subalterne, in netta opposizione al notabilato dominante in precedenza (e che negli ultimi lustri è tornato saldamente al governo). Di qui lo sfondamento nei capoluoghi, risalente a non prima degli anni ’70.

La variegata messe di fenomeni che va sotto il nome di globalizzazione ha sfarinato il blocco storico alla base delle fortune della Toscana rossa. Per alcuni anni si è pensato di poter alimentare un’inerzia elettorale e culturale virtuosa. Col passare del tempo, tuttavia, anziché farsi interpreti di un blocco sociale imperniato sulle nuove subalternità, gli eredi dei “rossi” hanno scelto la scorciatoia clientelare: di farsi cioè garanti, in maniera piramidale, di piccole e grandi rendite di posizione di pezzi di società che si riproducevano nel rapporto di patronato con il partito e le istituzioni.

In questo senso il Pd è stato un passaggio tutt’altro che innaturale, i democristiani in questo avendo molto da insegnare (infatti i gruppi dirigenti di provenienza “bianca” hanno egemonizzato il partito).
Finché l’economia ha tirato, questo ceto politico ha potuto dare una parvenza di continuità, ma la crisi e le risposte austeritarie – condivise a Roma dal partito del governo locale – hanno eroso i margini di manovra. Oggi la regione che sprofonda nella rendita immobiliare, dove le famiglie possidenti risalgono alla metà del ‘400 e la rete infrastrutturale è piegata agli interessi della terziarizzazione debole basata sul turismo, mentre la realtà dei distretti industriali segna il passo (a conferma della fallacia del “piccolo è bello”). Si tratta di una realtà ostile per chi tenta di abitarci, ci studia senza essere un ricco rampollo e soprattutto ci lavora.

Il notabilato di governo pensa di rinserrarsi nel perimetro della Toscana centrale in un’ottica centrata su Firenze, ampliandone l’aeroporto, costruendo un sistema tranviario funzionale al turismo, derogando alle normative di pianificazione urbanistica a favore della rendita, non curandosi di ampliare l’offerta di edilizia pubblica e alimentando dall’alto la guerra degli autoctoni poveri contro gli stranieri usurpatori di un welfare pensato sempre più come residuale, compassionevole e clientelare. Una classe dirigente che a fronte del ritorno dello Stato reso necessario dalla pandemia e dalla capacità distruttiva della finanza propone di affidare i servizi pubblici alle dinamiche della borsa, tardi epigoni degli anni ‘90.

Che fare? Innanzitutto tornare a vedere e leggere le dinamiche regionali da un punto di vista di classe, tenendo assieme il rilancio del sistema industriale con le esigenze del quadro ambientale e la creazione di lavoro di qualità. Occorrerebbe poi riaffermare la centralità della cura del territorio ed il rilancio dello stato sociale, a partire dalla sanità pubblica.

Sul piano immediatamente politico dovrebbe essere messa all’ordine del giorno la ricostruzione di un’alleanza basata sul lavoro contro il blocco della rendita, imperniata tanto sul M5S quanto sulle forze di sinistra. Allo stesso tempo c’è da augurarsi che nel Pd si affermino le posizioni di figure autorevoli come Bindi e Chiti, promotori di un manifesto politico programmatico che recupera il meglio della tradizione riformatrice di matrice comunista e cattolico democratica.
Hic Rhodus, hic salta.