In queste ultime settimane si è tornati a parlare di Europa con una certa enfasi come reazione allo schiaffo di Brexit e in relazione al tentativo di rilanciare il processo di unificazione continentale. In qualche misura viene riesumato lo slogan del «più Europa», sebbene venga declinato in maniera fumosa e a volte incomprensibile.

L’«Europa a più velocità», ad esempio, proposta dai vertici tedeschi e largamente accolta anche da tanti europeisti convinti di casa nostra, non è chiaro dove voglia andare a parare. Difesa comune, provvedimenti economici, politiche dell’immigrazione cui, stante la cornice continentale, si potrà aderire con scadenze diverse in funzione di una specie di maturazione nazionale.

Oppure come sottolinea il commentatore de Il Sole 24 Ore Carlo Bastasin «deve essere una di quelle perifrasi così elastiche da rimbalzare indietro al primo impiccio»? Insomma l’idea di Europa rimane, con l’ambizione a farla ancor più unita, ma sembra più un’idea appunto, frutto di un’istinto autoconservativo rispetto alle altre principali potenze in campo, piuttosto che la risultante di progetti veri e propri. Una conferma di tale propensione arriva dal provvedimento del governo Gentiloni nella nuova legge di Bilancio sulla cosiddetta flat tax, cioè quella norma che dovrebbe favorire il domicilio in Italia di stranieri «con alto patrimonio», attraverso una tassazione forfettaria di 100 mila euro dovuta a titolo di imposta sui redditi prodotti all’estero.

Una tassa sulle persone piatta, dunque, ad aliquota fissa che non cresce in maniera proporzionale al reddito, che creerà sperequazioni nel trattamento tra vecchi e nuovi residenti, ma che nell’intento del legislatore dovrebbe attrarre capitali e risorse. Nel solco di quella molteplicità di provvedimenti che da qualche decennio favoriscono direttamente i ricchi e danneggiano indirettamente i poveri, in quanto nel complesso contribuiscono a ridurre risorse per il welfare, senza mai creare le condizioni per una ripresa economica di cui godano tutti.

In realtà i vantaggi ai grandi possidenti non fanno da volano, se non in misura insufficiente, per una crescita generalizzata.

Tassare meno per tassare tutti e di conseguenza far crescere le entrate appare operazione di difficile realizzazione. La ricchezza continua a non sgocciolare ai piani medio bassi delle nostre società. La flat tax rivolta ai Paperoni stranieri, però, non costituisce unicamente un provvedimento che nega i principi di equità, ma un meccanismo di funzionamento sistemico.

Essa, infatti, non arriva per prima in Europa, formule simili sono in vigore in paesi come Gran Bretagna, Irlanda, Portogallo, ma il caso nostrano diventa più conveniente per un’esenzione totale dalle imposte di successione e donazione. Le persone facoltose degli altri paesi possono venire nel Belpaese non solo per risparmiare sul fisco, ma anche per far ereditare i propri patrimoni senza dover pagare alcun tributo. Immette nel regime di concorrenza fiscale un’ulteriore elemento di convenienza, che ne fa la sua ragion d’essere.

La flat tax allora rappresenta un ulteriore approfondimento delle logiche competitive su cui si è fondato nel tempo il Vecchio continente, altro che «più Europa» per attenuare le spinte centrifughe. Rappresenta un ulteriore tassello di quella lotta ipercompetitiva che fa dell’Europa un campo di battaglia tutto interno, dove cresce la polarizzazione tra avanzi e disavanzi commerciali, tra deficit e avanzi di bilancio pubblico, per non dire della costante rincorsa al ribasso nell’offerta di condizioni di miglior favore per le imprese in termini fiscali, di costo del lavoro, di tutele e diritti.

Al netto di qualsivoglia retorica sarà difficile salvare l’Europa con questi espedienti, dato che in questo vortice si fa fatica a intravedere il fondo.