Intascate le dimissioni incredibilmente sofferte di Jacob Zuma, il quale come un bambino a cui viene strappato di mano il gelato che non ha ancora finito di mangiare continua a ripetere «non è giusto, non è giusto», Matamela Cyril Ramaphosa ieri è stato incoronato a tempo di record dal parlamento di Pretoria nuovo presidente del Sudafrica.

NON C’È STATO neanche bisogno di votare perché l’unico candidato era lui, il vice presidente in carica. Porterà il Paese alle elezioni del prossimo anno con ottime prospettive di vincerle, malgrado la crisi senza precedenti che affligge l’African National Congress. Tendenza a cui certo la sequela di scandali di corruzione che hanno investito Zuma non ha giovato.

Ramaphosa, che non ha mai nascosto le sue ambizioni fin dall’arrivo al potere dell’Anc nel 1994, dopo aver preso le redini del partito lo scorso dicembre allunga la scia ereditaria di Mandela anche alla guida della prima economia del continente africano. Dopo il compassato Thabo Mbeki e il tellurico Jacob Zuma, che si era fatto le ossa nell’ala militare del movimento anti apartheid, è la volta di un maestro della trattativa a oltranza.

CAPO DELEGAZIONE DELL’ANC al tavolo che portò alla liberazione di Mandela e a tutto il resto, Ramaphosa è uno degli architetti del nuovo Sudafrica e delle sue ambizioni “arcobaleno”. Quando Madiba se ne dimentica in chiave successione, lui la prende così male che pianta tutto per darsi agli affari. E se nella sua prima vita viene ricordato come ottimo leader del Num, il sindacato dei minatori, nella seconda si trasforma in boss dello stesso settore minerario e da qui estrae la fortuna che oggi lo colloca sul podio degli uomini più ricchi del Paese. Circostanza che non è di per sé una colpa, mentre lo è agli occhi di molti l’essere stato consigliere d’amministrazione della Lonmin nei giorni in cui si consumava il «massacro di Marikana», con 34 minatori in lotta uccisi dalla polizia nel 2010, non 50 anni prima.

Che la tenacia sia una delle sue virtù chiave lo si capisce anche dal modo in cui ha saputo aspettare il momento buono senza restare fermo, mettendo anzi a profitto – è il caso di dirlo – il tempo che i rovesci della politica gli aveva improvvisamente liberato.

Da un po’ il 65enne neopresidente ascolta il Paese provando a intercettarne i bisogni. Studenti in rivolta? Istruzione gratuita per tutti. Corruzione? Debellarla, non tanto per questioni morali ma perché spaventa gli investitori stranieri (la vicenda dei Gupta, oggetto di raid poliziesco nelle stesse ore in cui si consumava il destino di Zuma, potrebbe rovesciare questa “narrativa”).

IL RAND, MONETA NAZIONALE, per ora lo ha accolto con quotazioni entusiaste. Ma per soddisfare le aspettative di un paese in cui la disoccupazione tocca il 30%, non basterà aggredire la stagnazione economica. Perlomeno non con l’impianto neo-liberista che fin qui ha fatto sorridere solo i soliti noti e una piccola élite di cui Ramaphosa è esempio eclatante, lasciando una moltitudine di sudafricani nella triste realtà delle township. In questo quadro, la «crescita inclusiva» e il nuovo patto sociale di cui parla Ramaphosa sembrano ancora delle chimere.

L’ASSEMBLEA NAZIONALE intanto ha ribadito antiche distanze, con il contrasto tra il canto propiziatorio delle file Anc e i banchi quasi tutti bianchi della Democratic Alliance, impietriti. L’unica opposizione che si è fatta notare è stata quella nata negli ultimi anni da scissioni interne allo stesso Anc: l’ala turbolenta dell’Economic Freedom Fighters di Julius Malema, uscita dall’aula, e quella moderata del Congresso del Popolo di Mosiuoa Lekota, che attacca il metodo con cui si è proceduto alla fulminea proclamazione.

Verranno da lì i principali mal di testa per il nuovo presidente. E dagli stessi vertici ridisegnati dell’Anc, perché ora che Ramaphosa ha incassato anche il sostegno della riottosa provincia del KwaZulu Natal, già feudo di Zuma, tutti si aspettano da lui la sterzata necessaria per evitare una figuraccia come quella patita alle ultime elezioni locali.