Come dimostra il fallito sgombero di Cinema Palazzo di martedì scorso, si intensifica sempre di più il tentativo di porre fine a moltissime esperienze di autogestione romane. La città solidale edificata a Roma nell’arco di trent’anni – costituita da occupazioni abitative, centri sociali e tessuto associativo e di cooperazione – è in larga parte sotto assedio. Una città nella città che rischia di essere cancellata, e che ora è possibile considerare nella sua multiforme estensione grazie alla mappa realizzata dal collettivo di cartografia critica e partecipativa «ReTer».

LE MINACCE ARRIVANO da ogni fronte, attraverso interventi sempre più sistematici e violenti che hanno eletto Roma, in quanto città in cui il fenomeno delle occupazioni è più diffuso e radicato anche a causa della cronica assenza di politiche abitative e sociali, come principale laboratorio di sperimentazione. Qui la stretta repressiva si è convertita in un piano organico di sgomberi concepito come progetto pilota di un piano nazionale.

Predisposto attraverso una serie di atti coordinati tra Viminale, prefettura ed enti locali, il piano si è concretizzato nel «Programma» prefettizio con l’elenco di 22 interventi prioritari pubblicato il 18 luglio scorso. In termini regolativi e di linea politica si è passati dalla circolare di Marco Minniti (1 settembre 2017), che recava ancora qualche timida indicazione volta a garantire soluzioni alternative contestualmente agli sgomberi, alla stretta repressiva di Matteo Salvini impartita attraverso l’analoga circolare ministeriale del 1 settembre 2018 (sgomberi senza soluzioni alternative) e con il Decreto sicurezza approvato nel novembre successivo (inasprimento delle pene per chi occupa).

Quanto all’esecuzione degli sgomberi invece, si è passati senza soluzione di continuità dallo scempio di via Curtatone, dove il 19 agosto 2017, 800 persone, prevalentemente rifugiati eritrei, sono state sbattute in mezzo alla strada senza predisporre alcuna contromisura, allo sgombero altrettanto selvaggio di via Cardinal Capranica, eseguito il 15 luglio scorso con uno spiegamento di forze senza precedenti (16 blindati), in seguito al quale la comunità che abitava nella ex scuola di Primavalle dal 2003, circa 300 persone di nazionalità marocchina, rumena e italiana (tra cui 80 bambini), è stata sradicata e disgregata senza aver predisposto valide alternative.

LO SCHEMA GENERALE che emerge da queste vicende è inquietante. Si assiste da un lato a sgomberi violenti e risolutivi in relazione a immobili di pregio o comunque facilmente valorizzabili, che siano di proprietà privata (Curtatone) o pubblica (Cardinal Capranica); dall’altro, più sotto traccia, si producono quelli che potremmo definire «sgomberi ricorsivi», ovvero sgomberi di immobili periferici e difficilmente valorizzabili che vengono successivamente rioccupati o implicano un semplice travaso di residenti tra un’occupazione e l’altra, in condizioni sempre più precarie.

È questo il caso degli sgomberi reiterati del capannone di via Vannina presso la Stazione Tiburtina (marzo, aprile e giugno 2018), della ex Penicillina in via Tiburtina (dicembre 2018 e gennaio 2019) o di via Raffaele Costi a Tor Sapienza (settembre 2018 e gennaio 2019), immobili fatiscenti puntualmente rioccupati dopo poco tempo. Riguardano in genere situazioni che non sono coordinate dai movimenti di lotta per la casa, più simili a slum che a occupazioni organizzate. Vi sono costretti a vivere migranti e rifugiati a causa dell’infernale circuito repressivo prodotto dalle politiche securitarie, che da un lato riducono le strutture di accoglienza e integrazione (come nel caso della chiusura degli Sprar a opera di Salvini), ingrossando insediamenti abusivi e occupazioni, dall’altro mettono in atto sgomberi ricorsivi sempre più violenti e inefficaci, vista l’assenza di alternative.

MA LA MAPPA degli spazi sociali a rischio di sgombero fa emergere una portata molto più estesa di questo processo. Il 16 aprile scorso il Dipartimento Patrimonio del Comune ha sollecitato lo sgombero per morosità di sei centri sociali che operano in aree in concessione di proprietà del Comune. Parliamo di spazi attivi da moltissimi anni, come Angelo Mai, Esc, Cortocircuito, Intifada, Astra, La Torre.

Questi luoghi, insieme a tutti gli altri spazi sociali in concessione, circa 200 (parliamo di palestre popolari, asili nido, sportelli legali, scuole di musica, teatri, associazioni che erogano servizi sociali o svolgono attività culturali), sono rimasti impigliati nella mala gestione amministrativa del Campidoglio già finita nel mirino della Corte dei Conti, un retaggio storico delle passate amministrazioni che li ha proiettati tutti nell’irregolarità. Per parte sua il Comune amministrato dal M5S, nelle more infinite della definizione di un nuovo regolamento, sembra stia conducendo un gioco molto discutibile e opaco. Li porta allo sfinimento senza offrire, in assenza di un regolamento, alcuno sbocco, e nel contempo esegue sgomberi alla spicciolata e reclama canoni di mercato.

Sono 35 gli sgomberi di spazi sociali eseguiti tra 2016 e 2017 dal Comune senza un audit del valore sociale che si stava azzerando – in alcuni casi evidentissimo, come per i centri per l’autodeterminazione e la tutela delle donne che sono tuttora minacciati, da «Lucha y Siesta» alla Casa delle donne.

Il sospetto, corroborato dall’analisi degli elenchi degli immobili di proprietà comunale, in cui molti stabili sono letteralmente spariti, è che si voglia svuotare gli spazi per riclassificare i beni da patrimonio indisponibile (e non alienabile) a patrimonio disponibile da mettere a bilancio.

DALLA MAPPA della «città contesa» emerge perciò una duplice evidenza. Decenni di autorganizzazione del sociale sono sotto attacco da parte di una coalizione di poteri, privati e pubblici, che ha messo in moto una spirale repressiva finalizzata alla messa a valore del patrimonio immobiliare e nel contempo all’estirpazione di un tessuto sociale capace di esprimere modelli alternativi di produzione, progettualità autonome e azione politica diretta.