N. è stata a lungo la direttrice di una catena di emittenti private diffuse un po’ in tutto il Paese e dirette da una bella sede alla periferia di Kabul. Dopo la caduta della capitale è riuscita a imbarcarsi con la famiglia per gli Stati Uniti. S. è invece stato il direttore di un giornale importante di Kabul su posizioni filogovernative. Che temesse per il suo lavoro e forse anche per la sua libertà personale – come nel caso della collega – era abbastanza logico tanto che è stato tra quelli che, prima ha spedito in Italia la lista dei suoi collaboratori a rischio, poi ha cercato di raggiungere l’aeroporto.

La lista, attraverso il sindacato dei giornalisti italiani (Fnsi), è arrivato alle Federazioni europea e mondiale dei giornalisti ma anche alla Difesa italiana. Ma purtroppo il nostro F., come molti altri, all’Abbey Gate non è mai arrivato: «Io e mia figlia siamo stati fermati dai Talebani e picchiati» e sono dovuti tornare a casa, raccontava nelle ore affannose della corsa all’aeroporto che, specie negli ultimi giorni, aveva sommato a una calca infernale le staffilate dei miliziani che tentavano, a modo loro, di far ordine nella coda infinita.

Se la situazione lo permetterà è tra quelli che hanno bisogno di un porto sicuro perché ancora non sappiamo quanto i giornalisti e le giornaliste potranno essere sotto schiaffo: sebbene la leadership talebana abbia dato garanzie sia sulle donne sia sui media, i timori restano e alcuni episodi – ancora relativamente pochi fortunatamente – non sono però incoraggianti.

Secondo Reporters sans frontières «nonostante le assicurazioni talebane che la libertà di stampa sarebbe stata rispettata e che alle giornaliste sarebbe stato permesso di continuare a lavorare, un nuovo panorama mediatico sta emergendo», con incidenti che hanno coinvolto le giornaliste afgane dopo il 15 agosto quando la guerriglia ha conquistato la capitale.

Rsf ha stabilito che meno di 100 giornaliste lavorano ancora formalmente nelle stazioni radio e TV di proprietà privata di Kabul che, secondo un sondaggio di Rsf e del Center for the Protection of Afghan Women Journalists, aveva 108 media tra radio e tv con un totale di 4.940 dipendenti nel 2020. Tra questi, 1.080 dipendenti di sesso femminile, di cui 700 giornaliste.

Delle 510 donne che lavoravano per otto dei più grandi media e gruppi di stampa, solo 76 (di cui 39 giornaliste) lavorano ancora. Secondo Rsf c’è dunque il rischio che le giornaliste stiano scomparendo dalla capitale. Nel 2020, più di 1.700 donne lavoravano infine per i media nelle tre province di Kabul, Herat e Balkh ma la maggior parte delle giornaliste è stata costretta a smettere di lavorare perché tutti i media di proprietà privata hanno cessato di operare con l’avanzata delle forze talebane. È solo un’interruzione dovuta alla guerra o un prossimo futuro?

Il segretario generale di Rsf Christophe Deloire lancia un appello ai Talebani perché «le giornaliste devono poter riprendere a lavorare il prima possibile, senza essere vessate, perché è il loro diritto più basilare, è essenziale per il loro sostentamento, e anche perché la loro assenza dal panorama mediatico avrebbe l’effetto di mettere a tacere tutti gli afgani».

Già il 24 agosto, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet aveva dichiarato che «una linea rossa fondamentale sarà il trattamento riservato dai Talebani a donne e ragazze e al rispetto del loro diritto alla libertà di movimento, all’istruzione, all’espressione personale e al lavoro, secondo le norme internazionali sui diritti umani». L’Afghanistan era stato classificato 122° su 180 paesi nell’ultimo World Press Freedom Index.