A mezzogiorno di una giornata di fine maggio gli spicchi d’ombra nel grande cortile bianco del santuario di ‘Abd al-Qadir al-Jilani sono preda ambita. Sotto i grandi ombrelloni bianchi sono sedute intere famiglie, di fronte una tovaglia e le pietanze portate da casa: prima e dopo la preghiera, la moschea è luogo di ritrovo e incontro. Poche settimane prima, in pieno Ramadan, l’iftar – il pasto che rompe il digiuno al tramonto – è stato momento di condivisione con i tanti poveri di Baghdad, molti arrivati sulla spinta di una fame nuova, figlia della pandemia e della crisi di un’economia già fragilissima.

Dal lato opposto della moschea fondata nel 1146 in uno dei quartieri più antichi di Baghdad, saliti pochi gradini in marmo chiaro, un telo blu indica l’ingresso della biblioteca al-Qadiriyya. Prende il nome dalla confraternita sufi fondata da ‘Abd al-Qadir al-Jilani nella prima metà del XII secolo a Baghdad. Mistico, considerato tra i padri fondatori del sufismo, al-Jilani riposa nella vicina moschea, la stessa che gestì insieme alla scuola ereditata dal suo maestro, al-Mukharrimi.

OLTRE LA PORTA, gli occhi devono per un attimo abituarsi a lasciare la luce accecante del cortile. La prima sala della libreria è nuova, ci dicono, aperta per fare spazio ai troppi libri che ospita. Le sale successive sono quelle originarie: soffitto basso, definito da archi in mattoncini, lo spazio è diviso da enormi armadi a vetri. Al centro stanno le perle della biblioteca al-Qadiriyya: manoscritti antichissimi protetti da teche coperte da teli azzurri. Uno dei bibliotecari più giovani li solleva e ci mostra i volumi all’interno, in attesa che il capo bibliotecario, Abdulmajid Mohamed, finisca di pregare e ci raggiunga.

Le teche della biblioteca al-Qadiriyya

In quelle teche c’è la storia di Baghdad dei primi secoli dalla fondazione dell’islam. Quella che è oggi solo la capitale irachena all’epoca era la capitale culturale dell’intero mondo arabo e musulmano, della scienza e della filosofia. Qui facevano tappa studiosi da tutto il Mediterraneo e dal Golfo, si incontravano e dibattevano mistici e scienziati, filosofi e scrittori.
Un tassello di quella produzione unica è conservata qui: manoscritti di al-Jilani, corani decorati con foglie d’oro, altri tradotti in ebraico antico, testi di medicina e di architettura arricchiti da miniature di ogni scala cromatica, un papiro lungo 20 metri che custodisce l’albero genealogico di al-Jilani, un documento redatto dal terzo califfo abbaside, un corano largo un metro donato dal Taj Mahal secoli fa, testi di calligrafia araba di cui è impossibile decidere cosa sia più incantevole, se le forme perfette della scrittura o le zkharef, le cornici di arabeschi.

Ci indicano un libricino, un «tascabile». L’inchiostro è ormai opaco e le pagine incollate tra loro: «È uno dei pochissimi volumi recuperati dal Tigri durante l’invasione mongola». Abdulmajid è arrivato. Si siede e inizia a raccontare: «Era il 1258. I mongoli di Hulagu Khan attaccarono Baghdad e la distrussero. Uccisero i suoi abitanti, centinaia di migliaia di vittime. La saccheggiarono. Entrarono nella grande biblioteca e università (la Bayt al-Hikma, ndr) e nelle tantissime librerie della città. Gli diedero fuoco, ma prima presero con sé decine di migliaia di libri e li gettarono nel fiume. La leggenda dice che il Tigri si tinse di nero e di rosso: il nero dell’inchiostro e il rosso del sangue».

Quello non fu l’ultimo saccheggio subito dalla cultura di Baghdad. Secoli dopo, nel 2003, fu l’invasione americana a devastarla. I primi giorni di guerra furono brutale teatro dell’assalto al Museo nazionale e alle biblioteche. Migliaia di reperti sono ancora dispersi, finiti nelle collezioni segrete di privati, mai rintracciati. Decine di librerie solo nella capitale furono distrutte.
Nelle settimane successive il direttore della Biblioteca nazionale di Baghdad, Saad Eskander, parlò di «disastro nazionale oltre ogni immaginazione».

Il libro salvato dal Tigri nel 1258

LA LIBRERIA al-Qadiriyya si salvò. Non aveva protezioni particolari, né guardie armate. C’erano i suoi custodi. «Sono un bibliotecario – ci dice Abdulmajid – Il mio compito era custodire i libri». Risponde così alla domanda su come trascorse le prime ore sotto le bombe americane. «Sono il librario di al-Qadiriyya da 65 anni, andrò in pensione tra due giorni. Ogni volta che c’è stata una guerra in Iraq, questo luogo è stato preso di mira e danneggiato. L’attacco americano era appena iniziato. Trascorremmo la giornata a portare in salvo i libri, quelli più antichi e preziosi. Li abbiamo nascosti nello scantinato e lo abbiamo chiuso con tre lucchetti. Poi siamo usciti fuori, cadevano le bombe. Era notte ormai, non c’erano taxi e allora sono tornato a casa a piedi».

«Qui sono custoditi 90mila libri, di cui 2mila antichissimi e che richiedono una manutenzione speciale – aggiunge Abdelsalam Abdulkareem, futuro capo bibliotecario, una laurea in medicina sacrificata per amore dei libri – Ci sono testi scritti a mano e testi stampati. Ci sono volumi di scienza, medicina, filosofia, sufismo, religione, biologia, geografia. Tutto quello che sta tra queste pareti è stato donato, la biblioteca non ha mai acquistato un solo libro. Il valore è immenso, non saprei quantificarlo».
Al piano superiore, in una sorta di piccola mansarda, sono stati portati alcuni volumi, insieme a copie dei giornali iracheni da fine Ottocento agli ultimi anni del regime Baath: lo spazio sta finendo.

«Stiamo pensando di espandere la libreria, non abbiamo più posto per i libri. Parte dello spazio è dedicato allo studio e alla consultazione: vengono moltissimi studenti iracheni e stranieri da tutto il mondo per la consultazione».
Come vengono pellegrini sunniti e sciiti a far visita al mausoleo sufi, minacciato nel 2014 di distruzione dall’autoproclamato califfo dello Stato islamico, al-Baghdadi, in uno dei primi discorsi pubblici pronunciati da una Mosul appena occupata, avamposto suo malgrado di una dottrina fascistoide e cupa che ha tentato di cancellare secoli di cultura e di apertura al mondo, di insegnamento e di studio.

Quello che è accaduto cinque anni dopo da quel discorso ha riportato alla luce quel bagaglio inestimabile. Nel presidio di piazza Tahrir, epicentro del movimento popolare di protesta iniziato nell’ottobre 2019, capace di resistere alla repressione governativa per un anno intero, i giovani hanno aperto una libreria. Tra le cliniche mobili e le cucine per sfamare i manifestanti e i poveri, tra i parcheggi dei tuktuk trasformati in ambulanze e le pareti grigie divenute tele da disegno, tra una tenda destinata agli spettacoli autoprodotti del «Revolution Theatre» e quella per il cineforum, i ragazzi e le ragazze di Tahrir hanno usato gli enormi spazi del Turkish Restaurant per i libri.

DELL’EDIFICIO, vuoto da tempo, non resta che lo scheletro. Nei mesi della Rivoluzione d’Ottobre era stato trasformato nel cuore «amministrativo» del presidio. A pianoterra, nel garage del palazzo di 18 piani, era stata aperta una libreria: alle pareti, ingrigite dall’abbandono, i manifestanti avevano montato scaffali bianchi. Sopra hanno messo i tanti libri di seconda mano donati in quelle settimane. Aperta 24 ore su 24, i giovani di Baghdad si sedevano a terra a leggere romanzi americani, trattati di scienze politiche, raccolte di poesie.

E anche a sfogliare Tuk Tuk, il giornale autoprodotto dai manifestanti, con gli articoli scritti dai giovani dei presidi di Baghdad, Bassora, Najaf, Nassiriya.
Otto pagine a colori, finanziate con collette tra i manifestanti, stampate nella tipografia del presidio di piazza Tahrir o inviate in formato pdf agli attivisti delle altre città per poterlo distribuire ovunque. Un giorno qualche copia di Tuk Tuk potrebbe finire sugli scaffali della al-Qadiriyya Library.