Dopo la maestosa, oceanica manifestazione del 18 settembre a Firenze in favore della Gkn, cui è seguita una sentenza che condanna i vertici dell’azienda per comportamento antisindacale, conviene riflettere su un aspetto strutturale della vertenza che non si limita ad essa, ma investe l’intero mondo del lavoro italiano – se non globale: le delocalizzazioni. Con tale termine si intende lo spostamento dei siti produttivi verso altri paesi, solitamente per il costo del lavoro più basso e tutele sociali più esigue, lasciando dietro di sé disoccupati ed umori abbastanza cupi.

Ed infatti tanti hanno cercato di accreditarsi come oppositori alle delocalizzazioni; per rimanere negli ultimi anni, l’allora ministro Calenda nel 2017 dette indicazioni al suo ministero di subordinare gli incentivi statali al permanere sul territorio, pena la immediata decadenza di essi.

Nello stesso senso va una proposta legislativa dell’on. Ruotolo diretta a potenziare le sanzioni dissuasive previste dal “decreto Dignità” per chi ha incassato i soldi di Stato e poi scappa. Analogo contrasto alle delocalizzazioni era il contenuto di una proposta di legge (A.C. 4361) dei deputati leghisti, primi firmatari Fedriga e Giorgetti del marzo 2017. Dopo lo scoppio del caso Gkn a luglio scorso è stato annunciato un decreto del ministro Orlando cofirmato dalla vicemistra del MISE A. Todde; la bozza resa pubblica, che appare piuttosto esile, ha però suscitato le ire di Bonomi, che lo ha bollato come “propaganda anti-imprese”, seguito a ruota da Il Riformista e Libero.

Che un testo così timido possa venir considerato vessatorio e punitivo, tanto da scoraggiare gli investimenti, può essere considerato un segno dei tempi in cui la libertà d’impresa viene considerata assoluta e intoccabile. Ma vale la pena di capire come si collochi nel pensiero dominante. Per esso, infatti, l’economia è un sistema basato su equilibri fra soggetti volti che cercano di massimizzare il proprio interesse, rispetto ai quali l’autorità pubblica deve rivestire il ruolo di facilitatore. Per cui la caduta delle frontiere rispetto ai flussi di merci e capitali è un elemento indiscutibile per creare l’ecosistema aziendale ideale.

Se restiamo in questa prospettiva è chiaro che l’interesse datoriale è, legittimamente, quello di cercare il contesto più favorevole tanto per vendere quanto per produrre: da qui la spinta alla libera circolazione dei capitali – che fa parte dell’essenza della Ue, in quanto prevista dai trattati fondamentali. Per cui l’esigenza di tenere capitali e aziende sul territorio non può che consumarsi a suon di incentivi e sanzioni: i primi più graditi a posizioni filo-imprenditoriali, le seconde più gradite ad aree più critiche dei processi capitalistici; tutti i testi citati in precedenza vanno chi più in una direzione, chi più nell’altra.

Ma è un contrasto limitato ad influire sulla scelta utilitaristica di profitto, cercando di far pendere la bilancia da una parte mettendo pesi e pesi sull’altro piatto. Gli otto punti approvati dalla assemblea permanente dei lavoratori Gkn, stilati da un gruppo di giuristi simpatetici con tale lotta indicano un’altra prospettiva: l’intervento statale non come facilitatore dei processi di mercato, ma volto a creare concretamente e direttamente le condizioni di tutela dei livelli occupazionali; l’interesse imprenditoriale resta ma all’interno di un processo più ampio di mediazione che ha per finalità ultimativa i diritti ed il bene comune.

Processo che deve includere i lavoratori stessi, al di là di ogni tecnicizzazione (il cercare una qualche soluzione al di là degli attori sociali coinvolti). Ma il conflitto sociale come strumento di costruzione di una tale dialettica è al centro della stessa Costituzione. In ogni caso la libera circolazione dei capitali in nessun modo può essere coerente con tale quadro. In una maniera o nell’altra dovrà finire.