Negli ultimi quattro mesi un numero crescente di analisti ed esponenti politici ha iniziato a sostenere pubblicamente che un popolo soggetto ad un’occupazione militare da parte di un esercito straniero deve (e ha diritto a) ricevere armi per sostenere la propria resistenza. Sono tuttavia rari – se non del tutto inesistenti – i casi in cui quegli stessi esponenti si sono espressi a favore dell’invio di armi ad altri popoli, al di fuori di quello ucraino, soggetti a invasioni e occupazioni militari. Basta prestare attenzione ai profili social o alle dichiarazioni e agli articoli prodotti da quanti incoraggiano la corsa alle armi per rendersene conto.

Va chiarito che molti tra coloro che sostengono l’opportunità di fornire decine di miliardi di euro in armi lo fanno anche – e spesso soprattutto – sottolineando che in mancanza di tali politiche si corre il rischio di “normalizzare delle annessioni territoriali”. Ciò, come ha notato ad esempio l’ex ambasciatore statunitense a Mosca Michael McFaul, avrebbe “enormi conseguenze negative per la pace e la sicurezza” e creerebbe “un precedente storico”, nella misura in cui verrebbe sancito il principio secondo il quale “sovranità e confini sono materia di negoziazione”.

Siffatti timori sembrano tuttavia valere solo in relazione al contesto ucraino. Risultano invece superflui o irricevibili quando ci si sofferma sul territorio palestinese occupato, sull’occupazione delle alture del Golan (che il segretario di Stato americano Antony Blinken ha suggerito di affrontare “lasciando da parte gli aspetti legali”), quella del Sahara occidentale (elencato dalle Nazioni Unite come territorio non decolonizzato, e riconosciuto dalle amministrazioni Trump e Biden come parte del Marocco) e su un ampio numero di altre “annessioni normalizzate”. Le “enormi conseguenze negative per la pace e la sicurezza” risultano per converso negoziabili quando, mutatis mutandis, coinvolgono popoli come ad esempio quello curdo, come peraltro ha confermato la loro “svendita” al presidente turco Erdoğan nell’ambito del recente iter di allargamento della Nato a Svezia e Finlandia.

D’altronde, l’illegale invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe ha consolidato una serie di principi e assunti che in numerosi precedenti e attuali conflitti, dall’ex Jugoslavia fino all’Iraq e allo Yemen, hanno goduto di un sostegno molto più limitato in Europa e Nord America.
Il primo assunto riguarda la constatazione che “l’autodifesa preventiva” (ovvero il pilastro della “Guerra al terrore” lanciata da Washington), così come ogni “invocazione pretestuale della forza usata in anticipo” (per usare la definizione di John Quigley in riferimento alla Guerra dei Sei Giorni del 1967), sono sempre illegali e meritano reazioni coerenti.

Il secondo consolidato assunto è che le stragi che coinvolgono bambini e famiglie sono sempre responsabilità di chi le perpetra. Infine il terzo e non meno importante: deve sempre essere ritenuto inammissibile fare riferimento a “danni collaterali” quando sono coinvolti dei civili.
A ciò si aggiunga che in questi ultimi mesi appare sempre più diffusa la consapevolezza che non esistano giustificazioni per avallare la persecuzione di giornalisti e attivisti che hanno fatto luce su documentati crimini contro l’umanità (se Julian Assange avesse fatto luce su crimini di guerra compiuti dai russi, le autorità di Washington lo avrebbero incensato alla stregua di un eroe).

Centinaia di acclarati crimini contro l’umanità sono peraltro (insieme a migliaia di altri non documentati) alla base dei flussi migratori che nelle ultime due decadi hanno interessato milioni di profughi provenienti dai paesi mediorientali.
È significativo che ai giorni nostri la Polonia stia costruendo un muro per tenere fuori dai propri confini quegli stessi rifugiati, sebbene molti provengano dall’Iraq, un Paese nel quale Varsavia ha schierato il quarto contingente militare della coalizione a guida statunitense (nell’aprile del 2005 erano presenti in Iraq 2500 soldati polacchi).

D’altra parte, i rifugiati dall’Ucraina (da dove, nell’arco di cinque anni, è giunto il terzo più ampio contingente militare presente in Iraq), possono entrare nell’Unione Europea (UE) grazie a uno speciale sistema di protezione temporanea che, oltre a garantire il diritto legale a rimanere all’interno di un qualsiasi Stato membro dell’UE, consente, com’è giusto che sia, l’accesso al sistema educativo, al mercato del lavoro, all’assistenza sanitaria, all’alloggio e a molto altro. L’UE non ha attivato questo stesso regime di protezione in relazione ad altri rifugiati, ad esempio quelli in fuga dalla guerra in Iraq, Siria o Afghanistan; guerre in cui gli Stati Uniti, gli stati membri dell’UE e la Russia sono (stati) direttamente coinvolti.

È opportuno sottolineare che i rifugiati (compresi molti bambini) provenienti dal Medio Oriente sono discriminati e ‘razzializzati’ da ben prima di quest’ultima guerra. Al tempo Putin, che oggi utilizza i rifugiati come strumento politico, rappresentava un “partner affidabile” per molti tra quanti oggi lo disprezzano. E ciò nonostante il fatto che le “operazioni” che hanno raso al suolo contesti come ad esempio Groznyj o Aleppo non fossero meno brutali e criminali di quelle alle quali stiamo assistendo oggi.

Tutto ciò contribuisce a fare luce sulle due grandi verità che stanno emergendo da questi quattro mesi di guerra: l’invasione dell’Ucraina è un crimine contro l’umanità che nasce da lontano e larga parte dei dibattiti che la riguardano rappresentano un inno all’ipocrisia e ai doppi standard.

* Professore, Università di Torino; direttore collane editoriali dell’istituto Affari Internazionali (IAI)