Se non avesse lasciato il Brasile, l’avvocato Ricardo Rao sarebbe andato incontro allo stesso destino di Bruno Pereira, il popolare indigenista assassinato il 5 giugno scorso in Amazzonia insieme al giornalista Dom Phillips. Amico di Bruno, e come lui dipendente della Funai, l’agenzia statale brasiliana che si occupa di popoli indigeni, Ricardo è a Roma, dove è arrivato a marzo, dopo aver ottenuto un asilo temporaneo in Norvegia. Grazie alla nazionalità italiana si è potuto stabilire nel nostro paese, dove sta cercando «disperatamente» un lavoro, ma ora teme per sua moglie e per il suo figlio di quattro anni, che sono rimasti in Brasile e che lui spera lo raggiungano al più presto.

A PREOCCUPARLO sono le minacce che anche loro adesso hanno ricevuto, dopo l’eco che ha avuto in Brasile la partecipazione di Ricardo, il 21 e 22 luglio a Madrid, all’Assemblea generale del Fondo per lo sviluppo dei popoli indigeni dell’America Latina e dei Caraibi, quando ha costretto il presidente della Funai Marcelo Augusto Xavier da Silva (proveniente dalla polizia, fu una delle prime nomine di Bolsonaro presidente) ad abbandonare la sala. In un video che mi mostra, Ricardo grida contro di lui, dandogli del «traditore della patria» e del «criminale» e ricordando le sue responsabilità nell’omicidio di Pereira e Phillips. E nella sala nessuno lo interrompe, perché «tutti sapevano che era vero». È tanta l’angoscia per la sua famiglia che, di ritorno da Madrid, ha pure avuto un infarto. Ma ora, mi assicura, sta bene.

MI RACCONTA la sua storia in un bar nei pressi di Piazza Vittorio, davanti a un boccale di birra. Una storia di coraggio, di integrità, di passione: il marchio di fabbrica di indigenisti come lui e Bruno Pereira. L’indigenismo, del resto, Ricardo ce l’ha praticamente nel sangue, ben prima di entrare nella Funai nel 2010. Sua madre vi lavorava come infermiera e lui da bambino aveva vissuto in un villaggio guarani. Suo fratello più piccolo, Tupac Amaru Rao, è un indigeno adottato dai suoi genitori quando la mamma era morta di parto: «Mia madre non era riuscita a salvarla». Ricardo mi mostra con orgoglio la sua foto. «I guarani sono il mio popolo», mi dice.

È stato sotto il governo Lula che la Funai ha conosciuto un grande rilancio: «È per questo che gli indigeni lo amano», mentre non vedono di buon occhio Dilma Rousseff, colpevole ai loro occhi di aver optato per l’agribusiness e tagliato le risorse per la Funai.

Ma è con Bolsonaro che la situazione diventa insostenibile. «Una delle sue promesse era stata quella di distruggere la Funai. E credo ci sia riuscito. Penso che già oggi l’organismo non sia più in condizioni di lavorare. Soprattutto perché la sua immagine è stata irrimediabilmente compromessa». All’inizio Ricardo aveva lavorato nel Mato Grosso do Sul, «dove è in corso un genocidio a contagocce contro i Guarani-Kaiowá». I dipendenti più onesti e combattivi, mi spiega, finiscono sempre per ricevere minacce e subire attentati, e così devono cambiare regione. È successo anche a lui, che proprio per questo era stato trasferito a Marabá, nel Pará. Ma anche da lì era stato costretto ad andarsene: «Avevano aggredito un’indigena ed ero intervenuto, richiamando su di me l’attenzione di miliziani e militari». Ed è così che viene mandato nel Maranhão, nell’Amazzonia orientale.

IL SUO ULTIMO PERIODO alla Funai è stato «terribile», dice. Mentre gli investimenti diminuiscono, ad aumentare sono le minacce, che ora non vengono più solo dai miliziani, ma anche dalle forze di sicurezza, se mai una distinzione tra loro è possibile.

Così, quando, durante una missione nel marzo del 2019, Ricardo intercetta una motocicletta di un soggetto coinvolto in crimini ambientali e la sequestra, il vicecomandante della polizia militare di Imperatriz, che riceveva tangenti dai trafficanti di legname, irrompe nel suo ufficio chiedendogli di avere indietro la moto. Ricardo decide invece di distruggerla, come gli consente la legge. Ma intanto pensa che la legalità è morta.

POCO DOPO, l’Abin, l’agenzia di intelligence brasiliana, manda un’équipe alla sede della Funai. Quando se ne va, come per incanto, l’Ispettorato della Funai chiama Ricardo e lo informa dell’apertura di un procedimento contro di lui. «Ero accusato di aver minacciato un funzionario con cui avevo avuto una discussione molto aspra, perché aveva sabotato una missione in cui ero coinvolto».

La situazione precipita. A settembre, viene ucciso il suo amico Maxciel Pereira dos Santos, che lavorava con Bruno Pereira nella Vale do Javari. Il primo novembre è la volta di un altro suo amico, il leader indigeno Paulo Paulino Guajajara, ucciso all’interno della riserva Arariboia nel Maranhão. «Aveva un soprannome che non mi piaceva, Lobo mau, lupo cattivo, per via di un cappello che ricordava il lupo dei fumetti. In realtà, Paulino era un uomo buono. Era un guardiano della foresta, un’organizzazione che aiutava la Funai nel servizio di protezione territoriale. Per la polizia federale il caso è risolto, ma io non mi fido. Del resto, penso che non ci sia da fidarsi di nessuna inchiesta della polizia federale. Giorni prima, non a caso, Paulino mi aveva parlato di una grande piantagione di marijuana finanziata con il sostegno di un poliziotto di Rio de Janeiro».

Dopo la morte di Paulino, Ricardo non ha dubbi: «Sapevo che il prossimo sarei stato io, uno dei sospettati del suo omicidio mi aveva già puntato una pistola alla testa nel centro di Imperatriz». Ma fa ancora un’altra cosa: il 25 novembre consegna alla Commissione di diritti umani della Camera dei deputati un dossier con nomi e cognomi dei responsabili di azioni criminali contro i popoli indigeni nella regione. È come se avesse firmato la sua sentenza di morte. È allora che decide di partire.

Quando Bruno Pereira viene ucciso insieme a Dom Phillips, Ricardo è già a Roma. Conosceva bene Bruno, aveva frequentato insieme a lui l’accademia di indigenismo dopo aver vinto il concorso. «Era un modello per tutti noi. Per chi fa il nostro lavoro, il talento più apprezzato è la capacità di interagire con gli indigeni. Non è un compito facile, perché gli indigeni hanno giustamente una naturale sfiducia nei confronti dei bianchi. Il miglior indigenista è chi sa vincere questa sfiducia più rapidamente. Bruno ci riusciva subito. Per questo era speciale, e il valore del suo lavoro era incalcolabile».

RIGUARDO AL SUO OMICIDIO, Ricardo non crede che possa ridursi tutto a un problema di pesca illegale. Concentrarsi su questo, dice, «serve solo a mettere in cattiva luce i ribeirinhos, che invece sono amici degli indios e pescano soltanto quello che serve alla loro sopravvivenza». E di certo Ruben Villar, conosciuto come Colombia e indicato come possibile mandante del crimine, non si occupava solo di pesca illegale, ma anche di estrazione di legname, di traffico di droga e di ogni attività legata al crimine organizzato locale.

Ma c’è un altro aspetto. «Poco prima di morire, Bruno aveva consegnato al Ministero pubblico federale un rapporto con i nomi delle persone legate alle attività criminali nella regione. Niente di più facile che qualcuno della polizia abbia avvisato Colombia. Del resto, Bruno conosceva tutti quelli che hanno preso parte al suo assassinio. Perché non lo hanno ucciso prima?»

Gli chiedo se ha intenzione di tornare in Brasile in caso di vittoria di Lula. Mi risponde che sarebbe il suo sogno, ma non sa se potrà realizzarlo. Perché, mi spiega, la conquista del governo non equivale alla conquista del potere. E non basterebbe una vittoria elettorale per smantellare i gruppi criminali che hanno infiltrato tutta la struttura dello stato. «Non so quanto ci vorrà perché il mio ritorno sia sicuro».