Trent’anni? Sinceramente credevo di più. Forse mi condiziona una coincidenza del tutto personale: ricordo molto bene il primo numero del manifesto perché uscì il giorno del mio compleanno. Ma facevo 46 anni e allora doveva trattarsi del mensile. Quello che tre mesi dopo titolò «Praga è sola» e provocò la radiazione dal Pci dei suoi promotori parlamentari, dirigenti di partito, sindacalisti o giornalisti che fossero sotto l’accusa di «provocazione maoista».

La prima edizione che si festeggia è quindi quella del quotidiano nel 1971 – 28 aprile – quando lo stesso gruppo di intellettuali diventò organizzazione politica. Ma non penso di far loro torto se riconosco di aver sempre considerato il gruppetto di via Tomacelli come un gruppo di pressione e di opinione più che un partito e il manifesto come un giornale, un veicolo di idee (e ideali), più che un organo ufficiale. Basta pensare al progetto iniziale di «foglio povero»: quattro pagine dedicate sì alla politica, ma con temi ignorati dalla quasi totalità degli altri quotidiani, e precluse a ogni forma di pubblicità. E basta ricordare il distacco definitivo della direzione dal Manifesto-Pdup nel 1978, le divergenze del 1990 dopo gli sconvolgimenti a Est, i travagli e i ricambi alla sua guida che hanno accompagnato i momenti politici – prevalentemente internazionali più che domestici – di maggiore intensità.

Si può dire che la vita di questo giornale si è sviluppata lungo due linee apparentemente in antitesi. Da una parte una navigazione in acque continuamente agitate da purtroppo frequenti crisi finanziarie, da periodici «s.o.s.» per la mobilitazione dei lettori e da vari cambi di filosofia nella comunicazione, contestuali ad altrettante ristrutturazioni grafiche. Dall’altra una coerenza di pensiero e di comportamento mai tradita e anzi alimentata di volta in volta proprio attraverso i vari passaggi: dal formato gigante al cosiddetto sfilatino e poi al tabloid; dallo stile da settimanale alle notizie brevi, quindi dalle inchieste con grandi fotografie e titoli di lotta carichi di denuncia (è noto «Il governo copre lo spionaggio degli Agnelli» dell’ottobre 1971) a resoconti, rubriche e commenti più articolati.

Come a dire che il gruppo del manifesto si è sempre sottratto e nemmeno mai potrà esservi aggregato a quel perfido gioco intellettuale secondo cui gli imbecilli non cambiano idea, mentre soltanto gli stolti possono tradire le loro idee. Ben 2.400 anni fa Aristofane è stato il primo a insegnare che ogni concezione avversa ha una sua autorevolezza, perché anche da quelle più ostili un uomo minimamente saggio sa imparare molte cose. Tutto questo ovviamente ha un significato. Ossia il fatto che nel codice genetico della testata e dei suoi fondatori c’è la capacità di interrogarsi, cercare ulteriori orizzonti e rinnovarsi. Lo dimostra quanto meno la circostanza che questo è l’unico quotidiano sopravvissuto a tutta la stampa della sinistra cosiddetta extraparlamentare e che ha saputo affrontare sempre per primo i lunghi periodi di crisi da cui è stata ciclicamente segnata l’intera editoria di sinistra, anche e soprattutto in piena stagione ulivista.

Penso di ricordare ancora quanto scriveva nell’estate del 1997 (ma non posso giurare sulla fedeltà della citazione) Valentino Parlato, allora direttore: «Se la stampa di sinistra è in crisi, c’è anche un’indubbia responsabilità della stampa di sinistra e parlo pure del manifesto… Penso che la vittoria delle sinistre abbia portato in mare aperto la stampa di sinistra… Forse è proprio per questo che siamo in crisi, per carenza di orizzonti».

D’altronde la capacità di interrogarsi e di rinnovarsi rispondono a quello spirito del giornalismo che il codice genetico di ogni testata deve possedere. Fra tanti episodi, ne è prova in particolare uno che in Fiat destò clamore, seminando notevole agitazione. Nel corso degli anni Ottanta presentai a Marentino ai massimi dirigenti del Gruppo – con supporto audiovisivo – un piano predisposto con grande cura per l’introduzione di un programma di qualità totale, destinato a riqualificare completamente il livello produttivo dell’azienda e considerato ovviamente fondamentale in termini competitivi. Il piano partiva da un’analisi impietosa della situazione dell’Azienda, con citazione di dati e diagrammi crudemente veritieri. Ebbene, pochi giorni dopo, la filosofia di quella «rivoluzione» e tutta la serie di interventi previsti non avevano più segreti. Con uno scoop in piena regola il manifesto svelò l’intero contenuto di quel video, grafici e tabelle compresi.

Come ho cercato di testimoniare, il rispetto e la considerazione che personalmente nutro e di cui è fatto segno il manifesto è quindi di natura complessiva. Esula dal rapporto di dimestichezza che mi lega a Valentino Parlato e supera il terreno ideologico anche al di là del valore funzionale della cosiddetta legge degli opposti secondo la quale senza contrari non c’è progresso. E se i primi trent’anni di coerenza sono stati vissuti pericolosamente, ben vengano altri trent’anni di passione purché così vitali e possibilmente meno tormentati. Come insegna Il demone meridiano di Paul Bourget, bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare come si è vissuto.