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Daesh in Asia orientale tra emuli e propaganda

Daesh in Asia orientale tra emuli e propagandaImmagine di Ayad Alkhadi

Sud est A Oriente del subcontinente indiano, si tende a negare o a esagerare la presenza del Califfato, «partito» che - in leasing, per adesione ideologica o per comodità di sigla - appare e sparisce seguendo in parte le sorti della «Casa madre» in Siria o in Iraq

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 8 giugno 2016

Proprio mentre l’esercito iracheno iniziava la sua offensiva su Falluja , dall’altra parte del mondo, nelle Filippine, l’esercito di Manila si dava da fare nella medesima direzione.
E assestava un duro colpo al gruppo islamista «Maute», dal nome della famiglia che lo ha creato a partire da una secessione dal Fronte islamico Moro di liberazione, una delle più antiche guerriglie secessioniste dell’arcipelago.

I Maute, che avevano assaltato in febbraio un centro dell’esercito nel Lanao del Sur, la loro roccaforte nell’isola di Mindanao, avrebbero lasciato sul terreno una cinquantina di militanti provenienti da campi d’addestramento dove i prigionieri, scambiati per denaro quando non vengono decapitati, vivrebbero vestiti d’arancio come nelle galere di Daesh e il gruppo sventolerebbe volentieri la bandiera nera del Califfo.

Ma è difficile capire quanto le notizie sian figlie della propaganda e quanto forti siano questi emuli dello Stato islamico. In genere, a Oriente del subcontinente indiano, si tende a negare o a esagerare la presenza di Daesh, un «partito» che – in leasing, per adesione ideologica o per comodità di sigla – appare e sparisce seguendo in parte le sorti della Casa madre in Siria o in Iraq.
Un progetto sudorientale di Daesh esiste e parrebbe voler ricalcare la diffusione dell’islam in questa parte di mondo asiatico. Vediamo paese per paese, dal Bangladesh all’Australia.

Bangladesh

L’ex Bengala pachistano e, prima ancora, una parte rilevante del Bengala indobritannico, è un luogo tormentato dove ingiustizia sociale e povertà sono un ottimo humus per i gruppi radicali. Daesh ha rivendicato l’assassinio dell’italiano Cesare Tavella e del giapponese Kunio Hoshi oltre all’attentato al sacerdote italiano Piero Parolari ma il governo nega che il Califfato abbia basi nel Paese.

Le simpatie però sono abbastanza accertate per lo meno per il gruppo Jamaat ul Mujahidden Bangladesh, autore di attentati anche contro gli sciiti locali, e lo stendardo nero potrebbe aver contagiato alcuni rami giovanili ultraradicali vicini alla Jamaat-e-Islami, il partito islamista per eccellenza. Poi c’è il gruppo Ansarullah Bangla Team che è però molto più vicino all’Aquis o Al Qaeda nel subcontinente indiano, il progetto «orientale» di Al Zawahiri.

Il quadro è confuso ma quel che è certo è che esiste una politica di omicidi mirati: blogger, attivisti per i diritti lgbt, laici o atei, monaci o preti non musulmani. Dabiq, la rivista ideologica di Daesh, ha dedicato spazio al Bangladesh ma non fa menzione dei gruppi che si sarebbero associati allo Stato islamico.

Myanmar

Nell’ex Birmania non esiste certo un pericolo Daesh e nemmeno un’emergenza qaedista. La bandiera islamista è semmai agitata come spauracchio dai gruppi oltranzisti buddisti che se la sono presa soprattutto coi Rohingya, una minoranza musulmana diffusa ai confini occidentali del Paese: perseguitata e senza diritti, spesso vittima di pogrom. Se Daesh avesse un progetto potrebbe far leva sulla disperazione dei Rohingya, troppo deboli però per lottare e che preferiscono lasciare il Paese sulle carrette del mare locali.

Thailandia

Si era pensato anche a Daesh quando, nell’agosto scorso, un attentato nel centro di Bangkok ha ucciso una ventina di persone. Poi le indagini han puntato altrove. Per ora non c’è traccia di Daesh in Thailandia anche se per Bangkok il movimento islamico autonomista del Sud rimane un pericolo e si teme che un possibile bacino di reclutamenti siano le aree di Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat, le cinque province dove vive una minoranza musulmana per lo più di origine malese: circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi per l’80% thai e per il 95% buddisti. La storia è vecchia, anzi antica. Yala, Pattani e Narathiwat – aree, che con altre oggi sotto la Malaysia, formavano il sultanato semi indipendente di Pattani dal 1909 definitivamente tailandese – sono le province più turbolente: è lì che, nella seconda metà del Novecento, son cresciuti i primi movimenti indipendentisti anche se si deve arrivare al 2001 per vedere un risveglio recente del separatismo.

A quel risveglio il governo, nel 2005 (e dopo una durissima repressione), ha risposto con la legge marziale e, un anno dopo, con i pieni poteri all’esercito.
Alternando bastone a carota, Bangkok ha ricompensato nel 2012 i familiari delle vittime di un’ondata di violenze che, benché non abbia più visto azioni eclatanti, non è affatto diminuita.
Il Bangkok Post, nel 2012, ha reso note le stime delle vittime di quasi dieci anni di guerra: otre 5.200 morti e quasi 9mila feriti. Tra i decessi: 4.215 civili, 351 soldati, 280 poliziotti, sette monaci e 242 «sospetti insorgenti». Una conflitto infinito che potrebbe attirare il sedicente Califfato.

Malaysia e Singapore

Da un paio d’anni Daesh avrebbe istituito in Siria un’unità malese-indonesiana chiamata Khatibah Nusantara e una scuola di formazione per ragazzi che parlano malese/indonesiano (sostanzialmente lo stesso idioma).

I materiali in questa lingua girano sul web e i governi han preso contromisure pesanti. In Malaysia ci sono state decine di arresti anche preventivi e recenti grazie a una nuova legge anti terrorismo che consente manette facili. La Prevention of Terrorism Act (Pota) è stata contesta perché è la fotocopia di una vecchia legge abolita nel 2012 e si aggiunge ad altre misure preventive che consentono, ad esempio, la revoca del passaporto.

In gennaio del resto, il premier della Malaysia Najib Razak ha messo in guardia sul pericolo «reale» rappresentato da Daesh nella federazione. Nella piccola città Stato di Singapore, i numeri restano invece minimi: una paio di famiglie soltanto sarebbero state «coinvolte» da Daesh.

Filippine

Nelle Filippine le cose – se possibile, sono ancora più complicate: nelle isole meridionali, dove è forte il sentimento indipendentista, lo stallo nel negoziato tra governo e separatisti islamici ha lasciato spazio ai gruppi islamisti più marginali e agguerriti che spesso sconfinano nel banditismo.

È il caso della famosa Abu Sayyaf (Brando divino) o dei Bangsamoro Islamic Freedom Fighters, che in un video hanno dichiarato l’adesione a Daesh. Poi c’è il gruppo dei fratelli Maute in un groviglio di sigle e siglette che spesso coprono taglieggiamenti e sequestri a scopo estorsivo.

L’area dove sono attivi gruppi e gruppetti guerriglieri si presta a nascondigli e campi di addestramento. I numeri restano piccoli e sarebbero un centinaio i filippini che han scelto la via siriana.
Il nuovo presidente appena eletto – Rody Duterte – potrebbe scegliere il pugno ancora più duro rispetto a quanto fatto sinora.

Indonesia

A metà gennaio esplosioni e morti sbattono Daesh in prima pagina a Giacarta ma l’episodio, che sembrava la miccia di una nuova stagione del terrore, non ha avuto seguito. Prima di Natale la polizia indonesiana aveva arrestato un gruppo di probabili affiliati a Daesh responsabili di un piano per colpire la capitale e altre città. Piano che sarebbe stato, e il condizionale resta d’obbligo, finanziato con risorse siriane. Poi gli attentati a Giacarta hanno riacceso l’attenzione mentre già si era diffusa la notizia che Abu Bakar Bashir – l’uomo che si pensò fosse dietro la strage di Bali del 2002, emulazione asiatica della Torri gemelle – avesse giurato fedeltà a Daesh, cosa che il suo gruppo, Jamaah Ansharaut Tauhid, avrebbe confermato.

Ma è anche vero che proprio quel supposto giuramento, che Bashir avrebbe fatto in prigione durante una preghiera collettiva, ha creato scompiglio nelle file sella sua organizzazione e, pare, abbia dato adito a una scissione.

Si segnala qualche manifestazioni pubblica di sostegno a Daesh – come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum (Faksi) – e alcune centinaia di indonesiani sono andati in Siria ma i numeri restano piccoli e la repressione è dura: chi è andato in Medio Oriente col fucile non può più tornare a casa e il controllo è affidato a un reparto d’élite – Densus 88 – che non risparmia il pugno di ferro e che usa, per le sue indagini, metodi molto opinabili.

Australia

L’Australia non è musulmana ma è terra d’immigrazione. Oltre un centinaio i reclutati da Daesh, alcune decine dei quali hanno perso la vita in Medio Oriente. Oggi, se si è legati a gruppi terroristici, si perde la doppia nazionalità. Quando il governo ha messo nel mirino il gruppo islamista non violento Hizb ut Tahir, c’è chi l’ha tacciato di paranoia. Ma il Califfato non sembra aver grande futuro nel quinto continente.

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