Phyllis Bennis è un’icona del movimento Usa contro la guerra, il suo impegno risale agli anni del Vietnam. Collabora con l’Institute for Policy Studies di Washington DC, dove dirige il New Internationalism Project e il suo lavoro è incentrato sulla politica estera Usa, in particolare sul Medio Oriente. Nel 2001 ha contribuito a fondare la campagna per i diritti dei palestinesi e ora fa parte del consiglio nazionale di Jewish Voice for Peace e del consiglio dell’Afro-Middle East Center a Johannesburg. Per l’Onu è stata anche consulente informale sulle questioni mediorientali.

Come è cominciato il movimento contro la guerra in Iraq?
Il 15 febbraio 2003 c’è stata la prima protesta globale della storia. Internet come lo conosciamo era agli albori ed è stato il momento in cui ci siamo resi conto che potevamo mobilitare persone in tutto il mondo: c’erano manifestazioni in tutti e sei i continenti, inclusa l’Antartide, era la prima volta che si manifestava prima ancora che iniziasse una guerra, per impedirla. Uno slancio partito dal basso che ha coinvolto anche dei governi. Coinvolti per ragioni opportunistiche, non mi faccio illusioni sul motivo per cui si sono uniti alla protesta, ma comunque si rifiutarono di sostenere la spinta bellica britannica e Usa. Le stesse Nazioni unite sono entrate a far parte di quella mobilitazione per la pace. Questo penso sia ciò che ha portato il New York Times, la mattina dopo la protesta, ad aprire affermando che al mondo c’erano due superpotenze: gli Stati uniti e l’opinione pubblica globale. Era il riconoscimento che quella mobilitazione aveva spinto governi e il potere supremo del diritto internazionale, l’Onu, a chiarire che quella guerra era illegale. Il 15 febbraio abbiamo avuto un incontro con il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. La nostra delegazione guidata dall’arcivescovo Desmond Tutu del Sudafrica, un grande leader anti-apartheid, ha detto ad Annan: «Siamo qui in nome di milioni di persone in tutto il mondo, e rivendichiamo le Nazioni unite come nostre». Non dicevamo solo no alla guerra, ma anche che l’Onu dovrebbe essere responsabile di questa ricerca di pace.

Che eredità ha lasciato quel movimento?
Non siamo stati in grado di impedire la guerra ma quella protesta ha realizzato cose importanti. È stata una parte importante del motivo per cui George W. Bush non è andato in guerra contro l’Iran nel 2007 e ha ispirato una serie di altre proteste globali e locali, tra cui la primavera araba, il movimento Occupy, gli Indignados in Spagna. Tutti questi movimenti avevano al loro interno persone che avevano lavorato alla mobilitazione contro la guerra in Iraq, che avevano un approccio globale.

C’è un legame tra quel movimento e questa tendenza più di sinistra che si vede ora negli Usa?
Assolutamente sì. In un film dal Regno unito sul 15 febbraio c’è un’intervista a un giornalista di destra che dice: «Noi di destra siamo stati smentiti, tutte queste persone in marcia avevano ragione. Avevano capito che quelle erano bugie e che non esistevano armi di distruzione di massa. Se in futuro vedremo ancora milioni di persone per strada, qualche governo sarà disposto a dire che sono irrilevanti?».

Gli Usa stanno affrontando un’altra guerra, ma la spinta al taglio del bilancio militare arriva più dall’estrema destra che dai dem.
Quello democratico non è mai stato un partito per la pace. Il democratico Lyndon Johnson e il repubblicano Richard Nixon hanno partecipato entrambi ad anni di guerra in Vietnam. Il Partito democratico è guerrafondaio anche se c’è un caucus progressista al Congresso, composto solo da Democratici. E comunque l’autodefinito caucus progressista non è mai stato particolarmente progressista in politica estera. E questo include il budget militare. E include certamente l’Ucraina in questo momento. E poi esiste il potere del complesso industriale militare. C’è un particolare aereo da guerra, l’F35, ogni anno vengono spesi miliardi per produrne. Gli F35 sono realizzati in 49 stati, non ci potrebbe essere modo più inefficiente di costruire un aereo. Ma crea lavoro in ogni singolo stato e i senatori di ogni singolo stato voteranno per gli F35, anche se sono contro la guerra. Se non lo fanno non vengono rieletti.

In corso c’è un’altra guerra, ma non vediamo la stessa opposizione dal basso.
C’è un residuo di antisovietismo anche in alcune parti del movimento per la pace che rende facile a governo e media convincere che questa guerra riguarda solo la malvagia Russia. Rende difficile costruire un’opposizione. Ci sono due guerre in corso: la guerra in cui Putin è l’aggressore e riguarda l’autodeterminazione Ucraina che è una questione reale, e c’è una guerra geopolitica, in cui l’aggressore sono gli Usa. I media hanno abbracciato questa guerra come nessun’altra, incluso il Vietnam. E quando l’unica opzione presentata è andare in guerra, parlare di pace diventa difficile. La sinistra Usa e il movimento contro la guerra hanno sempre avuto divisioni su cosa fare quando si tratta di forze che combattono contro l’imperialismo Usa. Qualcuno ha detto: chiunque stia combattendo contro di noi, è nostro amico. Ma io mi oppongo a militarizzare ulteriormente questa lotta e all’invio di più armi da parte di Usa ed Europa. Servono negoziati. Ora.