C’è un ponte immaginario che collega Lampedusa alla Germania; porta il nome di Oranien ed è una piazza che si trova a Berlino nel quartiere di Kreuzberg.

Jenny Erpenbeck, scrittrice tedesca tra le più acclamate nel suo paese che ha all’attivo romanzi di grande pregio oltre che premi prestigiosi, è ospite al Festivaletteratura di Mantova che si conclude oggi; proprio nel 2013 ha conosciuto un gruppo di tredici persone, tra uomini e donne perlopiù africani che in centinaia sono riusciti ad arrivare a Berlino dopo essere sbarcati a Lampedusa.

Il suo ultimo lavoro appena pubblicato per Sellerio si intitola Voci del verbo andare (traduzione di Ada Vigliani, pp. 349, euro 15) e prende spunto dalla sua esperienza diretta con alcuni migranti incontrati a Berlino.

«Passavo spesso per Oranienplatz. Poi un giorno sono stata colpita dalle voci di un gruppo di stranieri che, suppongo, stavano protestando e chiedevano attenzione, aiuto; ho assistito alla scena del tentativo di sgombero. Ho trovato spontaneo avvicinarmi e parlare con ciascuno e ciascuna di loro. Quello è stato il primo di una serie di incontri. Così, mentre conversavo, scrivevo ciò che accadeva, che mi veniva detto raccogliendo un materiale che oltre alle interviste – durate complessivamente dalle 6 alle 8 settimane – ho pensato di sistematizzare in una narrazione che avesse uno sfondo di fiction. Il romanzo nasce in questo modo, dopo che ho guardato le storie di queste donne e uomini, riportate abbastanza fedelmente e di cui ho chiesto poi ulteriore conferma. Un ragazzo che ho conosciuto a Oranienplatz vive con me. Fatao è del Ghana ma è partito dalle coste libiche. La famiglia era talmente povera che non ha potuto frequentare la scuola, così ha deciso di spostarsi in Libia fino a quando non è scoppiata la guerra civile. Procurati i soldi necessari, ha deciso di partire alla volta di Lampedusa; ora fa piccoli lavoretti, del resto non può fare altro. È stato nove mesi a Bergamo per avere un permesso temporaneo. Ha anche pagato il posto dove dormire, un pezzo di pavimento».

Il protagonista del suo romanzo è un filologo che vede la propria vita ribaltata e trasformata dalla frequentazione del centro profughi berlinese. “L’indigenza – pensa a un certo punto Richard – modifica e snatura persino quel poco che potrebbe sembrare semplice. Mantenere la dignità è uno sforzo che viene imposto quotidianamente ai profughi e li perseguita fin nei loro letti”. Che significato hanno assunto le relazioni fra voi di cui poi lei parla anche nel libro?

Le loro storie mi hanno coinvolta attivamente e ho cominciato a stringere un legame, in particolare con alcuni di loro. Così dalla curiosità di conoscere le loro vite sono passata ad accompagnarli negli uffici per fare dei documenti, ad andare insieme per avere informazioni circa le scuole e poi cose di ordine più contingente ma grave. Per esempio cercare di chiarire l’ingiustizia di un’accusa di furto con scasso e cose simili attribuite con molta facilità e noncuranza a chi in quel caso non le aveva certo commesse.

Attraverso la letteratura lei muove una critica precisa alle politiche di accoglienza proposte in Germania, è così?

Il flusso migratorio è proporzionale alla posta in gioco che è anch’essa enorme e che non può essere affrontata in solitudine. È vero, la Germania non mette in atto delle auspicabili politiche di accoglienza e io le contesto, tuttavia è qualcosa che andrebbe affrontato tra paesi europei, insieme. È una faccenda troppo complicata per liquidarla facilmente con un’inadeguatezza delle leggi – che pure ci sono ma che sono ingiuste e tra l’altro non funzionano, senza che si faccia niente di sensato per modificarle. Prima di ricevere il permesso di soggiorno o prima di assumere uno status che consenta ai profughi di immaginare un trasferimento dove desiderano, di cercare un lavoro o potersi permettere un’assistenza sanitaria, gli spostamenti tra un paese e l’altro sono parecchi. Le regolamentazioni specifiche dei singoli stati evidentemente non bastano, spesso si scontrano e non sono collegate in maniera ragionevole. Quindi in Italia c’è il dramma di Lampedusa, in particolare, e delle coste su cui il flusso preme ma molto spesso si tratta di un approdo dettato dall’esigenza di sopravvivere e non dal desiderio di arrivare proprio lì. Ecco perché quando sono rimasti un certo periodo nei centri di accoglienza molti di loro riescono ad avere il permesso (o a trovare il modo) di spostarsi. Poi, arrivati in Germania, non hanno permesso di soggiorno e quindi sono impossibilitati al lavoro. Tutto questo oltre che stupido è inaccettabile.

Lo slogan «We became visible» torna spesso nelle prime pagine del suo romanzo ed è un invito, dialettico e di confronto, che nelle manifestazioni racconta qualcosa di drammatico sul senso dell’essere visti e sulla legittima rivendicazione di un posto per sé…

Ho voluto insistere sull’espressione perché bisogna rompere la coltre che spesso cala sopra le vite dei rifugiati e dei profughi. Direi degli stranieri in generale; il paradosso è infatti che in Germania c’è un’abitudine alla presenza di migranti che quindi sono più che visibili nella vita quotidiana ma al contempo, e proprio in nome di quella visibilità, vi è l’impossibilità di bucare una superficie che non prevede venga loro riconosciuta attenzione. Diventare visibile, chiedere di esserlo, significa allora superare questa oscurità dello sguardo. Manca infine una visione in cui si ammetta l’esistenza di altre storie oltre la nostra. La stupidità sta nel fatto di accusarli della marginalità che gli stessi paesi accoglienti producono. Molti di loro, anche se arrivano da paesi poverissimi, facevano dei lavori, arrivano qui con dei talenti o delle cose da fare interagire all’interno della comunità ma non possono farlo. E non mi stupisce che questo procuri una insofferenza che spesso genera sacche di rabbia.

Tra Lampedusa e Berlino quali sono le differenze attraverso le esperienze che le sono state raccontate?

Non mi sembra che in Italia ci sia l’algidità che viene praticata in Germania né questo atteggiamento espulsivo di non accettazione a tutti i costi, soprattutto riguardo gli africani. Perché c’è una differenza tra i migranti, per alcuni la burocrazia è più lunga, farraginosa e sembra non finisca mai. Per altri invece vi sono una serie di agevolazioni. I passaggi burocratici tendono evidentemente a dissuadere chi decide di mettere radici in un luogo, tuttavia quel che si viene a produrre è un circolo vizioso che mette in moto tutto ciò di cui si dispone, anche quando è poco, per poter aggirare le restrizioni. Quindi si cercano vie di fuga da un paese europeo all’altro attraverso varchi che non siano così controllati, passaggi possibili; ed è un dispendio di energie, e di soldi, che non hanno.

Nel 2015 però la Germania ha aperto ai siriani…

E quell’apertura ha portato solo un peggioramento nelle condizioni degli africani. Si è fatto lo sforzo per i primi e non per i secondi, anzi i respingimenti per questi ultimi si sono inaspriti. Come se si potesse fare una gerarchia di guerre e di miseria. Cioè come fare apparire che mentre i primi scampano a una tragedia imminente (o che spesso si è già abbattuta), i secondi potevano avere qualche altra scelta invece della fuga. Ma la Germania non fa cose a caso e quindi se ha chiuso un occhio sul regolamento di Dublino solo per i siriani c’è una ragione. Intanto la spinta della Russia, nonostante il transito da Grecia e Turchia. Poi, certo, c’è anche un impeccabile sistema educativo siriano, e quindi di formazione teorico-pratica in generale, che consente alla Germania di immaginare affinità con quelle che diventano, in prospettiva, risorse utili da integrare. I siriani hanno avuto un processo di assimilazione e accettazione molto più rapido, solo qualche settimana in confronto agli anni, spesso 3 o anche 4, per gli africani che rimangono in un limbo. Quello dei siriani è certamente un popolo percepito più simile, più affine a quello tedesco.

Certo non basta ma, come lei, molti altri – singoli o associazioni – hanno preso in carico la situazione dei migranti. A qualche anno di distanza dalla storia che ha raccontato nel suo libro che clima si respira in Germania?

La presenza della destra e la pressione sull’opinione pubblica è considerevole. Seppure gli argomenti siano di una retorica spicciola. Quindi sembrerebbe che gli stranieri siano genericamente arrivati in Europa appositamente per delinquere, per rovinare il nostro stato socio-economico. Che la crisi sia provocata e resa insostenibile proprio a causa loro. Questo genere di argomentazioni certamente attivano la già critica considerazione di quanti non approfondiscono i problemi né le questioni e dunque immaginano sia così. Invece di perdere tempo, mi chiedo invece perché da parte delle istituzioni non ci sia ancora una presa d’atto riguardo l’organizzazione di corsi e apprendistati al lavoro per esempio. Oltre alla garanzia della prima sopravvivenza sembra che l’Europa non sappia costruire niente altro per chi arriva dal mare.

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Il 17 settembre a Lubecca il Premio Thomas Mann alla scrittrice

Jenny Erpenbeck (foto di Isolde Ohlbaum)

Nata a Berlino Est nel 1967, Jenny Erpenbeck è considerata una delle voci più rappresentative della letteratura tedesca. È del 1999 il suo fortunato esordio, «Storia della bambina che volle fermare il tempo» (Zandonai 2013) in cui racconta la storia, drammatica e distopica, di una ragazzina che non sembra avere reazioni per ciò che le accade intorno. Che sia il peso di una storia in cui è immersa che non concede spiragli, l’autrice sostiene che si tratta di una «bambina vecchia» che soffre di amnesie perché non vuole ricordare; come si può chiedere a un bambino di ricordare la propria infanzia di guerra? Il romanzo è stato un successo e l’ha consacrata come una delle scrittrici di maggiore talento evocativo e profondità storica.

«Di passaggio» (2008) arriva in Italia 3 anni dopo (sempre per Zandonai) e le procura un successo di critica internazionale che è ormai inarrestabile.

Il premio Hans Fallada le viene attribuito nel 2012 grazie al suo terzo romanzo, «E non è subito sera».

Il 17 settembre 2016 Jenny Erpenbeck andrà a ritirare a Lubecca il prestigioso premio Thomas Mann che negli anni precedenti è stato assegnato tra gli altri a Christa Wolf, Uwe Johnsson e Peter Handke.

«Voci del verbo andare» appena tradotto per Sellerio è il suo ultimo romanzo.