Qualche giorno fa, un camion si aggirava a passo d’uomo per il campus di Harvard University. Il maxischermo montato sul lato mostrava una rotazione di primi piani con relativi dati anagrafici e la dicitura “gli antisemiti di Harvard.” Le foto ritraevano i 34 studenti che all’indomani dell’attacco del 7 ottobre, aveva criticato le politiche israeliane come corresponsabili delle condizioni in cui era maturato l’attentato.

Il doxing rende l’idea del tenore che ha assunto negli Stati uniti il dibattito pubblico e mediatico attorno all’attentato del 7 ottobre e la reazione di Israele. In particolare, della falsa equivalenza fra critica ad Israele ed antisemitismo, fra opposizione al bombardamento di Gaza e sostegno a Hamas. La polemica attorno al conflitto rimane arroventata e spesso degenera in rappresaglie come quelle di Harvard.
E va al cuore della libera espressione delle idee. L’affidabile governatore Ron DeSantis, ad esempio, ha ordinato la chiusura delle sezioni di Students for Justice in Palestine negli atenei della Florida perché «sostenitori del terrorismo di Hamas». Questo da un presunto critico della “cancel culture” – ma si tratta dello stesso candidato repubblicano che ha offerto al console israeliano di Miami di inviare direttamente armi dalla Florida in Israele.

ACCANTO alle vigorose proteste pacifiste in molte città, specificamente guidate da ebrei progressisti, c’è stata una profusione di editoriali che hanno criticato come inaccettabile l’analisi equidistante sottoscritta da numerose associazioni studentesche. In un corsivo sul Wall Street Journal un professore di economia di Berkley ha pubblicamente invitato gli studi legali del paese a non assumere i suoi laureandi in legge che avessero sposato posizioni ugualmente “antisemite”. E almeno uno di questi sembra averlo preso in parola. Una dottoranda di Nyu, Ryna Workman, si è vista improvvisamente rescindere l’offerta di un impiego dopo essersi dichiarata a favore della liberazione dei palestinesi dall’oppressione dell’occupazione e dal regime di apartheid. Per tutta risposta l’università ha rimosso Workman anche dall’incarico che aveva di presidente dell’associazione studenti della facoltà, una decisione che lei ha definito «intimidatoria» nei confronti di chi si azzarda a criticare il genocidio oggi in atto a Gaza.

PROPRIO PER AVERE usato il termine “genocidio” rischia la carriera Maha Dakhil, agente di punta della potente Creative Artists Agency di Hollywood (Caa). La Dakhil, che fra gli altri rappresenta Tom Cruise, Madonna e Natalie Portman, è stata pesantemente redarguita per aver ripubblicato in Instagram un post che affermava «stiamo imparando chi sostiene davvero i genocidi». In seguito, aveva postato una foto con la didascalia «cosa c’è di più sconfortante dell’assistere ad un genocidio? Assistere alla negazione che questo stia avvenendo». Poco dopo l’agente ha annunciato le dimissioni dal consiglio aziendale e dal reparto cinema che dirigeva. «Con quel post ho sbagliato», ha in seguito dichiarato a Variety. Aggiungendo la dichiarazione vagamente orwelliana: «Sono grata a tutti gli amici e colleghi ebrei che mi hanno educato sulle implicazioni». Uno dei suoi clienti, Aron Sorkin, ha comunque deciso di lasciare l’agenzia: «Maha, non è antisemita, ha solo torto».

LE POLEMICHE hanno ugualmente travolto l’associazione degli sceneggiatori. Alcuni membri hanno aspramente criticato la Writers Guild of America (Wga) per non aver condannato in termini abbastanza chiari l’attentato del 7 ottobre. Reduce dalla solidarietà che ha caratterizzato la recente vertenza sindacale, il gruppo si è ora spaccato fra membri ebrei ed un gruppo di sostenitori di diritti palestinesi. Per la Wga la polemica è particolarmente sensibile per la sua storia di associazione tradizionalmente progressista e storicamente con una gran numero di iscritti ebrei.

Nel censimento aneddotico delle dichiarazioni social delle celebrità, Hollywood sembra generalmente divisa fra le dichiarazioni di solidarietà con Israele e quelle contro lo sterminio di civili a Gaza. Ultima a prendere le distanze dalla violenza disumana di entrambe le parti è stata Angelina Jolie, con l’autorità derivante dai due decenni spesi come ambasciatrice della commissione rifugiati dell’ONU (Unhcr). «Come tale», ha scritto l’attrice in un post, «il mio impegno è stato a favore di popolazioni vittime di violenza in ogni contesto. La privazione di aiuti, carburante ed acqua ai due milioni di residenti a Gaza, per metà bambini, costituisce una punizione collettiva. L’umanità esige un immediato cessate il fuoco. Le vite palestinesi e israeliane hanno lo stesso valore».

Sull’altra costa, intanto, il dibattito sulle stragi incrociate ha investito anche il mondo dell’arte, con il licenziamento del direttore della prestigiosa rivista Artforum. David Velasco, a capo della testata dal 2017 è stato allontanato per avervi pubblicato una petizione a favore del cessate il fuoco e contro la “complicità del governo (americano) con le gravi violazioni di diritti umani e crimini di guerra”. In segno di solidarietà con Velasco hanno fatto seguito le dimissioni a catena di numerosi redattori e collaboratori . Artisti come Nan Goldin hanno annunciato l’intenzione di voler boicottare Artforum. «Non ho rimpianti», ha dichiarato intanto l’ex direttore, «sono solo rammaricato che un giornale che ha sempre sostenuto la libertà d’espressione e le voci degli artisti, abbia ceduto a pressioni esterne».

Dima Khalidi direttrice di Palestine Legal, associazione per i diritti legali dei Palestinesi in America , ha affermato di non essere del tutto sorpresa da quelle pressioni, vista quella che ha definito una «storica eccezione palestinese alla libertà d’espressione». Ma ha confermato di aver registrato un’impennata nei tentativi di intimidazione di voci critiche e solidali con la Palestina, non solo in circoli accademici.

LA REGOLA sembra applicarsi anche a parlamentari come le progressiste Cori Bush e Rashida Tlaib (unica deputata di origini palestinesi), autrici di una nota in cui piangevano «le vite perdute di israeliani e palestinesi» e in cui auspicavano una pace fondata sulla fine dell’occupazione della Palestina. Agli attacchi, prevedibili, di un Gop sempre più vicino al governo Netanyahu, si sono sommati quelli di molti colleghi democratici, evidenziando la forte influenza bipartisan di gruppi di pressione israeliani come la lobby Aipac e confermando la “radioattività” della questione israeliana nella politica americana.