In Cina torna la guardia alta contro il Covid-19. Se a Wuhan alcuni quartieri sono stati tenuti in quarantena anche dopo il calo vistoso di nuovi casi, nei giorni scorsi anche a Pechino l’allerta è tornata ad essere arancione: negli ultimi giorni sono stati infatti registrati nuovi casi, in totale circa 200 nel weekend; le autorità cinesi ritengono che i dati dipendano dal ritorno di cinesi che vivevano all’estero, per questo si parla di casi «importati».

L’ATTENZIONE PRINCIPALE in questo momento però è spostata nella regione del Guangdong, uno dei polmoni produttivi del paese, in particolare a Canton dove nei giorni scorsi sarebbero stati registrati nuovi casi, a fronte di oltre 300mila tamponi effettuati. Tra i «positivi» si sarebbero segnalati anche alcuni africani, eventualità che ha scatenato fenomeni di razzismo e comportamenti violenti da parte di cittadini e autorità tali da costringere molti ambasciatori africani a scrivere una lettera per denunciare il clima nella città.

Venerdì scorso, ad esempio, è diventato virale il video nel quale le autorità nigeriane mostrano all’ambasciatore cinese in Nigeria un video nel quale una persona raccontava di molestie e maltrattamenti subiti. Canton è una città storicamente a grande presenza africana, raccolta per lo più in un distretto chiamato proprio «Little Africa».

Si tratta di una convivenza non sempre ottimale, nonostante i rapporti ormai consolidati tra Cina e Africa (dove vive un milione di cinesi): negli anni scorsi più volte la comunità africana ha denunciato episodi di razzismo e aggressioni e in generale una mancata integrazione con la popolazione autoctona.

A questo carattere storico, si aggiunge un elemento di diffidenza e sospetto nei confronti degli stranieri che in Cina è aumentato nelle ultime settimane dopo la chiusura delle frontiere e più in generale fomentato dalla presunzione di supporre che a portare il Covid in Cina ora siano per lo più non cinesi.

A FRONTE DEI CASI di coronavirus registrati nella comunità africana (in realtà solo 16) e fatti difficilmente verificabili, come quello che vorrebbe alcuni nigeriani responsabili di migliaia di contagi perché non avrebbero rispettato l’obbligo di quarantena, sono emersi atteggiamenti stigmatizzati nella lettera che gli ambasciatori africani hanno inviato a Pechino.

Fin dalla scorsa settimana, infatti, gli africani di Canton hanno riferito – come riporta Reuters – «di essere stati espulsi dai loro appartamenti, sottoposti a test per il coronavirus più volte senza ottenere risultati ed essere discriminati in pubblico».

LA LETTERA degli ambasciatori, inviata al ministero degli esteri di Pechino, sottolineava proprio «la stigmatizzazione e la discriminazione in atto» responsabile di aver «creato la falsa impressione che il virus sia diffuso dagli africani». Per questo nella lettera si chiede «immediatamente la cessazione di test, quarantena e altri trattamenti disumani cui sono sottoposti gli africani».

Nei giorni scorsi alcune persone avevano denunciato alla stampa internazionale i trattamenti subiti in Cina: «Ho dormito sotto il ponte per quattro giorni senza cibo da mangiare. Non posso comprare cibo da nessuna parte, nessun negozio o ristorante mi servirà», ha raccontato Tony Mathias, uno studente dell’Uganda all’Afp.

«SIAMO COME MENDICANTI per strada», ha raccontato aggiungendo che la polizia non gli ha fornito informazioni sui test o sulla quarantena, ma invece gli avrebbe suggerito «di andare in un’altra città». Un uomo d’affari nigeriano ha dichiarato di essere stato sfrattato dal suo appartamento: «Ovunque la polizia ci veda, ci viene detto di tornare a casa. Ma dove possiamo andare?».

Altri hanno raccontato che moltissime persone africane sono state sottoposte ai test anche se non sono uscite dal paese da ormai molto tempo. Pechino, pur riconoscendo l’esistenza di alcuni «malintesi», ha risposto negando che questi comportamenti siano in atto e accusando gli Stati uniti: a dare notizia e conto degli episodi discriminatori per primo, è stato infatti il consolato americano di Canton.