L’annuncio-minaccia di Zabihullah Mujahid, il portavoce dei Talebani, ieri non ha sortito effetto. Due giorni fa a Kabul aveva dichiarato che avrebbe impedito agli afghani di lasciare il Paese, perché l’emorragia dei talenti nuoce al futuro governo. Ma ieri migliaia di persone hanno continuato a spingere sugli ingressi dell’aeroporto di Kabul, per cercare di essere evacuati. Qualcuno ce l’ha fatta. Qualcuno no. Qualcuno riprova più volte. Sapendo che la finestra di opportunità si chiuderà presto.

Che la generosità degli europei probabilmente verrà meno il 31 agosto, la data entro la quale tutti i soldati stranieri dovranno aver lasciato il Paese, come non smettono di ricordare i turbanti neri ora al potere. Vale anche per i i turchi: il ministro della Difesa di Ankara ha annunciato l’inizio del disimpegno. Senza escludere future collaborazioni tecniche con i Talebani.

È TORNATO A PARLARE di Afghanistan, e dell’evacuazione simbolo della debacle statunitense, anche il presidente Usa. Prima ce ne andiamo, meglio è, perché c’è il rischio di attentati da parte della branca locale dello Stato islamico, ha dichiarato Joe Biden. Il fuggi fuggi da Kabul viene giustificato con i pericoli rappresentati da un nuovo gruppo jihadista, emerso tra il 2014 e il 2015 su un territorio in conflitto, l’Afghanistan, dove nel 2001 è stata inaugurata la guerra al terrore contro al-Qaeda e contro i Talebani, oggi al potere. Biden parla di un pericolo concreto, imminente. Lo studioso Charles Winter nota che dal giorno precedente alla conquista talebana di Kabul, la propaganda della “provincia del Khorasan” è stata silente per ben 11 giorni, «il più lungo periodo di inattività dallo scorso ottobre». Ma il gruppo è pericoloso. Lo sanno gli afghani, in particolare la comunità sciita degli hazara. E lo sanno i Talebani.

Biden usa uno schema retorico consolidato: far passare per inevitabili, scaricandone le responsabilità su altri – questa volta lo Stato islamico, ieri la classe dirigente afghana arraffona e i soldati codardi – le conseguenze di scellerate scelte politiche di Washington e degli alleati. E scorda di dire che se c’è questa fretta, dopo vent’anni di presenza militare tutt’altro che frettolosa, è perché è stato lui a scegliere la data del 31 agosto per il ritiro completo, e il suo predecessore Trump a voler far passare un accordo per il ritiro degli americani come un piano di pace vero e proprio.

A MEDIARE CON I TALEBANI per quell’accordo, firmato a Doha il 29 febbraio 2020, c’era il governo del Qatar. Che nelle ultime ore sta intensificando gli sforzi diplomatici per arrivare alla formazione del governo a guida talebana. Il Qatar è uno degli sponsor del movimento, a cui non ha lesinato finanziamenti, ma è anche uno degli attori che non vuole lasciar loro mano libera.
Così l’inviato speciale Mutlaq bin Majid al-Qathani ha cominciato a condurre consultazioni nella capitale. Si è fatto vedere anche con Abdullah Abdullah, che nella defunta Repubblica islamica aveva il compito di gestire l’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, e con l’ex presidente Hamid Karzai. A cui sta toccando una strana sorte: subito dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani aveva diffuso un video in cui – le nipotine davanti a sé – si diceva pronto a ricostruire insieme il Paese. Per poi autonominarsi, insieme allo stesso Abdullah e a Gulbuddin Hekmatyar, parte di un triumvirato di transizione. Pochi giorni fa i Talebani hanno fatto irruzione in casa sua, disarmando le guardie e occupando l’edificio. Oggi vive con la famiglia nella residenza di Abdullah, con cui ieri ha incontrato docenti universitari, membri dell’Accademia delle Scienze, esponenti della società civile.

A differenza di Gulbuddin Hekmatyar, che con i Talebani condivide l’uso della violenza armata e che vanta credenziali islamiste già capitalizzate, la coppia Abdullah-Karzai appare in affanno. Anche se non è detto che non venga loro assegnato un posto di potere. I Talebani non sembrano infatti aver rinunciato a presentare un governo «inclusivo», almeno quanto basta per soddisfare partner come il Qatar e ammorbidire gli occhiuti occidentali, che in questi giorni, impotenti e sotto scacco, si interrogano sul come mostrarsi duri con i turbanti neri senza che a rimetterci sia la popolazione, che affronta una gravissima crisi umanitaria.

COSÌ IERI L’INVIATO TEDESCO in Afghanistan Markus Potzel ha incontrato a Doha alcuni rappresentanti del movimento, barattando – a quanto pare – nuovi aiuti economici in cambio della disponibilità dei Talebani a far emigrare gli afghani dal Paese anche dopo il 31 agosto, se con i documenti in regola. E chiedendo che l’aeroporto torni attivo per i voli commerciali.
L’inclusività tanto sbandierata dalla propaganda dei Talebani dovrà valere anche all’interno del movimento fondato da mullah Omar. Lo stallo sul governo è figlio della rapidità del collasso istituzionale. Inaspettato anche per i Talebani, che credevano di poter definire le linee di governo programmatiche e l’architettura istituzionale e costituzionale durante un governo a interim. Saltato anche per il colpo di coda dell’ala militarista dei Talebani, forse imboccati da Islamabad. In particolare di quelli della regione orientale e degli Haqqani. Che si stanno prendendo Kabul, con crescente insofferenza di altre fazioni.

PER CHI NE CONOSCE le efferatezze, per quanti conoscono la loro sanguinosa efficacia stragista, fa impressione vedere l’attivismo pubblico, nella capitale e altrove, di figli, fratelli, nipoti di Jalaluddin Haqqani, il fondatore dell’omonima rete del terrore, oggi guidata da Sirajuddin, il numero due del movimento talebano. Che in anticipo sui tempi aveva giurato di essere cambiato. Nel febbraio del 2020 il New York Times ha ospitato un suo editoriale ecumenico, in cui si diceva pronto alla pace e al rispetto dei diritti delle donne, una volta ritirate le truppe straniere e negoziato un nuovo governo. Ma è stato uno dei protagonisti della spallata militare che ha portato alla caduta di Kabul. Ieri, sempre sul New York Times ha provato a spiegarne le ragioni il generale Sami Sadat, che ha combattuto «per tre mesi giorno e notte, nonstop, nella provincia meridionale dell’Helmand», come comandante del 215 Maiwand Corps. Oltre a combattere, tutti i giorni inviava messaggi rassicuranti ai cittadini di Lashkargah, sotto assedio: «Li faremo fuori tutti».

HA PERSO. Ma non accetta che il presidente Biden scarichi sui suoi soldati l’ascesa dei Talebani. Sono 66.000 i soldati afghani morti in questi anni, ricorda. E se l’esercito si è dissolto è per tre ragioni principali: l’accordo di Doha voluto da Trump, sbilanciato; la corruzione endemica nel governo Ghani; il rientro a casa dei contractors che mantenevano la logistica militare. «A luglio se ne erano già andati 17.000», portando con sé «software, sistemi d’attacco, sistema di difesa missilistica». Il generale conclude accusando di «essere stato tradito da politici e presidenti». E conclude così: «È stata una sconfitta militare, ma causata da un fallimento politico».