Sembrerà un paradosso, ma l’inizio dell’attività letteraria dello scrittore destinato a diventare una delle grandi figure del noir avviene nel segno di Francis Scott Fitzgerald, l’idolo degli anni Venti. Cover Charge (1926), il suo primo romanzo, racconta le vite e gli amori della gioventù dorata dell’età del jazz con le cadenze snob, elusive e sofisticate dell’autore di Di qua dal paradiso, dove si riconosce un’intera generazione che aveva trovato «tutti gli dei morti, le guerre combattute, le possibilità di fede dell’uomo sconvolte». Sin dai primi romanzi spiccano i motivi ricorrenti della sua narrativa poliziesca come il fascino che esercitano in lui le sale da ballo, il cinema, le canzoni popolari, di cui si serve per suggerire gli stati d’animo dei personaggi. Il più suggestivo è Manhattan Love Song (1932), ambientato nella New York dei Roaring Twenty, quando la gente, travolta da una sorta di delirio collettivo, sembra presagire il trauma della Grande Crisi.

Cornell Woolrich, che firma anche William Irish e George Hopley, è nato a New York il 4 dicembre 1903 da genitori che divorziano quando è ancora giovanissimo. Il nonno materno a Città del Messico gli fa vedere Madame Butterfly, messa in scena da una compagnia di cantanti francesi. L’esperienza è destinata a marcarlo per sempre, facendogli scoprire il senso della tragedia, il dramma, l’esotismo: «Mi sentivo in trappola come qualche povero insetto che hanno messo sotto un bicchiere rovesciato e che cerca di arrampicarsi sul vetro e non può, non può, non può».

La svolta risale al successo di Children of the Ritz (1927), il suo secondo romanzo, che vince il premio di centomila dollari messo in palio dalla rivista «College Humor» e dalla casa cinematografica First National. Lascia l’università per lavorare come sceneggiatore a Hollywood. Sposa nel 1930 la ventenne Gloria Blackton, figlia di un pioniere dell’industria cinematografica, ma il matrimonio è annullato dopo poche settimane e Cornell vola a New York dalla madre. Cerca a più riprese di sottrarsi al dominio dell’affascinante Claire Attalie Woolrich, con la quale viaggia a lungo in Europa. Quando rinuncia al suo aiuto economico, comincia a vivere in alberghi d’infimo ordine, deciso a mantenersi con i suoi proventi di scrittore.

Negli anni Trenta i paperback inaugurano una nuova stagione della letteratura di massa, in cui l’industria culturale riorganizza il mercato attraverso una pioggia di pulp magazines, raccolte settimanali di racconti dalle copertine sgargianti e pruriginose in grado di scioccare il lettore. Su «Black Mask», «Detective Fiction Weekly», «Detective Story», «Argosy», «Dime Detective», lo scrittore newyorkese pubblica oltre un centinaio di racconti di qualità diseguale ma di singolare varietà. Nel frattempo la radio attinge a piene mani dalle decine e decine delle sue novelle, che si prestano perfettamente ad alimentare un’enorme quantità di trasmissioni radiofoniche.

Solo quando passa al romanzo, il cinema si accorge di lui, avviando un saccheggio sistematico che dura ancora oggi, soprattutto tra Usa e Francia. Sipario nero (1941) è il primo della serie nera, che suscita l’interesse degli Studios, attratti dal tema dell’amnesia, fino ad allora mai sfruttato sullo schermo. Nel dramma di Frank Townsend, che ritrova la memoria dopo più di tre anni di assenza, il narratore si immedesima con l’uomo in cerca di se stesso. L’inizio del romanzo è folgorante, con il protagonista ossessionato dalla volontà di squarciare il sipario che nasconde il passato. Street of Chance (1942) di Jack Hively non riesce a riproporre che in parte il clima delirante del libro.

L’uomo leopardo (1943) di Jacques Tourneur, prodotto dal leggendario Val Lewton per la Rko e tratto da L’alibi nero apparso l’anno prima, è invece uno dei titoli più riusciti. Spesso considerato inferiore a Il bacio della pantera, coglie con efficacia la soglia del fantastico, animando un inquietante horror-noir. Scandito da una serie di ellissi ben orchestrate in un raffinato gioco di specchi, il racconto è memorabile soprattutto per la sequenza della ragazza chiusa nel cimitero di notte, intrappolata fra le invalicabili mura di cinta.

La donna fantasma (1944) di Robert Siodmak, tratto dall’omonimo romanzo di un paio d’anni prima firmato William Irish, si sintonizza con il clima notturno di New York, dove la realtà lievita nel fantastico. Costretto a emigrare in Francia e poi negli Stati Uniti per le sue origini ebraiche, il regista si è formato nell’ambito dell’espressionismo, come è evidente dalle soggettive, gli effetti di luce, il simbolismo degli oggetti. Ella Raines detta Kansas, la segretaria dell’imputato che si prodiga per trovare le prove della sua innocenza, s’incontra con lui nel parlatorio illuminato dall’alto, in un clima di baluginante irrealtà. La ricerca dei testimoni si rivela difficile se non impossibile. Il mondo sembra popolato da bugiardi, nevrotici, fantasmi che si sottraggono a ogni ammissione, annichiliti nel forzato mutismo della menzogna. Straordinario è il lungo pedinamento del barista, in cui Kansas attraversa la città di notte, sopraffatta dal caldo dell’estate, mentre si avverte solo il rimbombo dei tacchi nelle strade deserte.

Il cielo stellato, sotto il quale il caso e il destino sconvolgono la vita dei personaggi, è il motivo centrale di La notte ha mille occhi (1948), che John Farrow, il padre di Mia, scrittore e regista dalla versatile esuberanza, trae dal romanzo omonimo di quattro anni prima. Nonostante le numerose libertà che il film si prende nei confronti dell’originale, la figura del veggente – Edward G. Robinson gli impresta la sua maschera di forte espressività – vive il suo dono come una maledizione. Non si serve certo della palla di cristallo degli illusionisti da baraccone, ma, indotto da una forza oscura che non riesce a padroneggiare, è costretto a misurarsi con la vertiginosa profondità della visione. Il tema del destino, il richiamo all’inconscio, il senso di morte incombente sono rappresentati dai sinuosi movimenti di macchina che sembrano schiacciare i personaggi inquadrandoli dal basso, sottolineando ancora di più la loro condizione di inferiorità nei confronti delle imperscrutabili scelte del fato.

«Siamo diventati una razza di guardoni», afferma Stella (Thelma Ritter) in La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock, su sceneggiatura di John Michael Hayes, tratto dal racconto omonimo di dieci anni prima. Stella è l’infermiera che ogni giorno va a massaggiare L. B. Jeffries detto Jeff (James Stewart), il fotoreporter immobilizzato nel suo appartamento del Greenwich Village a causa di una gamba ingessata. La commedia umana che si svolge nelle finestre di fronte – dalla coppia di sposini in calore alla ballerina esibizionista, dal compositore in crisi alla zitella Miss Cuorinfranti – ripropone i dilemmi della coppia e del matrimonio, che affiorano a più riprese anche tra Jeff e Lisa (Grace Kelly). Quando riesce a introdursi nell’appartamento di Lars Thorwald (Raymond Burr), che Jeff sospetta di aver ammazzato la moglie, ne esce con la fede al dito e la mostra compiaciuta al teleobiettivo. La considera, è evidente, una doppia vittoria, sia sul piano delle indagini che su quello dei rapporti personali. Il film, annoverato da sempre tra i capolavori del maestro del brivido, rivela subito la sua esplicita natura metacinematografica nel senso che, mescolando suspense e ironia, il regista mette in scena il cinema colto nella sua spettacolarità, ma anche nella sua essenza teorica. Se il fotoreporter è l’alter-ego del regista, si identifica d’altra parte anche con la figura canonica dello spettatore, che nel suo incontenibile voyeurismo si comporta come fosse al cinema con gli occhi puntati sullo schermo, anzi sui tanti schermi che gli si offrono davanti. Oggi viene facile pensare che Jeff, disteso immobile in soggiorno, stia guardando la tv impugnando non il binocolo ma il telecomando, con cui può continuamente cambiare programma passando da una finestra all’altra del palazzo di fronte, altrettanti canali di cui può disporre.

La sposa in nero (1967) di François Truffaut è tratto dal primo romanzo dello scrittore americano, che in questo caso si firma William Irish, uscito in patria nel ’40 e in Francia soltanto nel ’48. Il successo del libro è tale che Marcel Duhamel, il fondatore della «Série Noire», celebre per la sistematica riproposta dell’hard-boiled, è indotto a creare per Gallimard la «Série Blême», che sostituisce il nero d’azione d’impianto comportamentistico con le strategie della suspense. François aveva letto il romanzo nel dopoguerra, quando sua madre divorava tutti i polizieschi americani, in cui i lettori scoprono l’altro volto dell’America, il cuore nero di un mondo «diverso». Nella trasposizione cinematografica lo spostamento dell’ambientazione newyorkese all’anonimo sfondo francese contribuisce ad accentuare il tono di favola nera, in cui la protagonista vive in una sorta di incubo onirico. Nell’organizzare con puntigliosa meticolosità i cinque omicidi degli uomini che involontariamente hanno ucciso il marito David sulla porta della chiesa subito dopo la cerimonia nuziale, Julie non incarna la dea della vendetta e neppure la dark lady, ma è una donna appassionata che non riesce a dimenticare l’amore della sua vita spezzata. Nel film non si parla mai di delitti, ma piuttosto dell’amore, del modo in cui gli uomini guardano le donne, dei meccanismi più o meno felici della seduzione. La favola, vicina più all’iperbole che alla verosimiglianza, elimina tutte le affannose ricerche della polizia che ricomincia da capo a ogni nuovo delitto.

La mia droga di chiama Julie (1969), tratto da Vertigine senza fine del ’47, conclude il rapporto fra Irish e Truffaut nel segno del melodramma. Anzi, del fotoromanzo: «Ho voluto fare un film sincero che tuttavia assomigliasse a un fotoromanzo. Ho cercato d’introdurre, nella stessa sequenza, un cliché e un’emozione. Lo chiamerei un omaggio affettuoso al cinema americano, in cui si prende una cosa che si ama e la si prende anche un po’ in giro, senza per questo smettere di amarla, nonostante, anzi, grazie all’ironia». La vicenda di Louis Mahé (Jean-Paul Belmondo) prende il via quando nell’isola della Réunion aspetta lo sbarco della sua promessa sposa conosciuta per corrispondenza e invece si trova davanti la bellissima donna (Catherine Deneuve), che dice di essere Julie e di avergli mandato per timidezza la foto di una vicina. Il regista riesce finalmente a fare il suo grande film sull’amore. L’amore che è gioia e sofferenza, frenesia e tradimento, finzione e verità. L’amore che fa male. Sorprendente la leggerezza di scrittura – sempre in bilico tra partecipazione assoluta e distacco sopra le righe – in cui probabilmente non è estranea l’importante relazione sentimentale iniziata sul set tra François e Catherine Deneuve.

Se il film è esplicitamente dedicato a Jean Renoir, sono innumerevoli i riferimenti che rimbalzano da un fotogramma all’altro, da Johnny Guitar, il western irreale e delirante di Nicholas Ray, a Notorious di Hitchcock, da Orfée di Jean Cocteau alla mela avvelenata di Biancaneve e i sette nani a fumetti che Louis agonizzante intravede in una delle ultime sequenze. L’intertestualità attribuisce al racconto una sorta di doppia lettura, come se le situazioni più intense e drammatiche fossero messe tra virgolette, senza togliere niente all’appassionata partecipazione con cui si svolgono. Irish è per Truffaut lo scrittore che più degli altri ha subito l’influenza del cinema e dei sui miti: «Ci sono dentro Capriccio spagnolo, L’angelo azzurro, La cagna. Il tema della vamp, della donna fatale, che soggioga un onest’uomo fino a farne un burattino, è un soggetto tipico del cinema d’anteguerra, trattato da tutti i registi che ammiro». Il segreto di La mia droga si chiama Julie sta forse nel fatto che rimbalzando dalla Réunion a Nizza, da Antibes a Aix-en-Provence, da Lione ai dintorni di Grenoble, il film dell’amore diventa un film d’avventura, conferendo al continuo passaggio dall’uno all’altro la vitalità di un metagenere di vibrante veemenza, non priva di ironia. La vivacità del racconto deve molto anche alla messa tra parentesi della sceneggiatura, alla scelta dell’improvvisazione a oltranza, per cui non pochi dialoghi sono scritti giorno per giorno e consegnati agli interpreti solo all’ultimo momento.

Non è un caso, o forse sì, che la celebrazione dell’amour fou coincida con i momenti più importanti delle vicende biografiche dello scrittore. Quando inizia la sua frenetica produzione di romanzi, vive da solo in uno dei tanti squallidi alberghi a cui si è ormai abituato: «Una notte lei mi chiamò al telefono e mi disse: «Non posso vivere senza di te, devo stare con te, ho bisogno di te». E allora misi giù il ricevitore e feci le valige e tornai da lei, e per tutta la vita non ho passato più una sola notte lontano da lei. Non ho rimpianto la mia decisione e non la rimpiangerò mai». Quando nel 1957 Claire muore, disperato per aver perso l’unico grande amore della sua vita, non scrive quasi più e si lascia andare alla deriva. Senza amici, siede per ore davanti al televisore, nelle camere d’albergo dove vive in mezzo al disordine, con bottiglie vuote sparse dappertutto. Alcolizzato, soffre di una grave forma di diabete. Trascura a tal punto un’infezione a un piede che, quando finalmente si decidono a chiamare un medico, la gamba è in cancrena e deve essere amputata. Nei pochi giorni che gli rimangono, il poeta delle ombre, l’erede di Edgar Allan Poe, vive su una sedia a rotelle, gli occhi sperduti nel vuoto, assistito solo dai camerieri. Si spegne il 25 settembre 1968. In uno dei suoi testi inediti aveva lasciato scritto: «Tentavo solo di superare almeno un po’ il buio che per tutta la vita avevo saputo che sarebbe arrivato a travolgermi e a cancellarmi. Tentavo solo di restare vivo ancora per un po’, mentre ero già morto. Di restare alla luce, di essere un altro po’ con i vivi, dopo che il mio tempo era già scaduto».