Prima della crisi che non è mai finita, quella del 2008, le diseguaglianze, le povertà, le deprivazioni materiali e assolute sembravano un lontano ricordo nei paesi dominanti. Le violenze sociali, sessuali o razziali erano considerate eccezioni, o deviazioni comunque da esecrare, rispetto all’ideale del mercato portatore di «civiltà». Il mercato era l’ideale campo da gioco dove l’ingiustizia era solo quella che crea vantaggi competitivi per alcuni e svantaggi marginali per gli altri. La povertà era un’interferenza nell’invisibile gioco degli attori economici e finanziari. Una condizione remota, riservata a paesi lontani dagli occhi, e dagli schermi. In ogni caso invisibile anche quando emergeva nelle città dell’Impero. Era solo pochi anni fa, il tempo della globalizzazione ascendente, della fine della storia, della presunzione massima e intollerabile di chi pensava di essere al centro del mondo. Mai la povertà ci avrebbe toccato, di nuovo, da vicino. Erano solo gli anni Novanta. Molte cose sono cambiate da allora.

IERI L’ONU ha organizzato la 27esima «Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà» e ha messo a disposizione una ricca fenomenologia per descrivere uno stato che, per alcuni tratti non marginali, riguarda anche il ceto medio e le classi lavoratrici occidentali, anche loro conquistate dalla retorica della globalizzazione alla quale hanno aderito con trasporto ideologico. Pensavano di essere esentate dallo stato di necessità. Non è stato così. Le persone che vivono in povertà, scrivono le Nazioni Unite, sperimentano condizioni di lavoro pericolose; alloggi non sicuri; mancanza di cibo nutriente; accesso diseguale alla giustizia; mancanza di potere politico; accesso limitato all’assistenza sanitaria. Con i tagli al Welfare, l’economia dei bassi salari e del lavoro gratuito, la creazione di un enorme quinto stato che ha stravolto la divisione sociale ideale tra il terzo stato della «borghesia» e il quarto dei «lavoratori», molte di queste caratteristiche appartengono anche alla vita di coloro che lavorano nelle economie occidentali, ma sperimentano la condizione dei poveri che lavorano (working poors). Senza contare i poveri al lavoro (in-working poors) e coloro che sono del tutto marginalizzati e vivono una «vita di scarto». La povertà non è più una condizione di esclusione assoluta. È un prodotto del lavoro che non serve ad arrivare a fine mese.

L’ONU HA DEDICATO la giornata di ieri alla povertà infantile. Quest’anno ricorre l’anniversario della convenzione sui diritti del fanciullo siglata il 20 novembre 1989. Questa è una realtà gravissima anche nel nostro paese. Per Oxfam Italia il 12,1% dei minori viveva in povertà assoluta nel 2017. E 5 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza, riscaldamento e abiti adeguati, mezzi per curarsi, informarsi, istruirsi.

NELL’UNIONE EUROPEA 109,2 milioni di persone sono a rischio di povertà o esclusione sociale, sostiene Eurostat. Quando nel 2008 i poveri erano 116 milioni, l’agenda Ue 2020 aveva auspicato l’uscita dalla povertà di 20 milioni di persone. È stato un fallimento. L’Italia è molto in alto alla classifica: con il 27,3% della popolazione, pari a oltre 14 milioni di persone, viene dopo Bulgaria (32,8%), Romania (32,5%), Grecia (31,8%), Lettonia (28,4%), Lituania (28,3%), e Spagna (26,1%). Dieci anni fa, nel 2008, la percentuale era del 25,5%. Dunque, è aumentata. Un’altra delle vittorie culturali dei Cinque Stelle, rafforzata dall’attuale alleanza di governo con il Pd, è stata quella di avere fatto passare il sussidio in cambio di lavoro e mobilità obbligatoria, chiamato «reddito di cittadinanza», come uno strumento di lotta alla povertà e di inserimento al lavoro. Un’analisi più equilibrata è stata fatta ieri dalla Rete dei numeri pari che ha organizzato al teatro Ambra Jovinelli di Roma un incontro verso «un’alleanza per la giustizia sociale e ambientale». «Nel nostro paese manca ancora una misura che riconosce il diritto al reddito e all’abitare- scrivono i responsabili – Cinque Stelle e Lega hanno creato un sussidio per i poveri, realizzato per giunta in deficit e non con la fiscalità generale, spacciato per “reddito di cittadinanza”, con l’unico obiettivo di sfruttarli per renderli “occupabili”, eventualmente facendoli lavorare anche gratis per migliorare le statistiche e non certo le condizioni di vita». È una delle più efficaci descrizioni di un efferato sistema di «workfare» letta da molti mesi a questa parte. Se il Pd, e le sinistre al governo, volessero evitare una nuova bancarotta politico-culturale rispetto a una politica neo-liberale aggressiva con i poveri e i disoccupati, già vista in tutti i paesi europei tra gli anni Novanta e inizi Duemila, potrebbe scoprire che ciascuno ha il diritto all’esistenza, indipendentemente dal fatto che lavori o meno. Si chiama «diritto all’esistenza». Se si volesse davvero una svolta politica, andrebbe applicato in maniera incondizionata.

L’ALLEANZA contro la povertà ha chiesto alcune modifiche importanti alla legge sul «reddito». Questo ampio cartello di associazione e sindacati – dalle Acli alla Caritas Italiana, da Cgil-Cisl-Uil al Cnca e alla Comunità di Sant’Egidio – ha chiesto al governo di eliminare l’esclusione dei cittadini extracomunitari residenti in Italia da meno di 10 anni; potenziare i servizi territoriali per chi è in disagio economico e modificare le norme per erogare la misura anche ai senza dimora. In Italia sono 55 mila persone sostiene la Federazione italiana organismi per persone senza fissa dimora . No, la povertà non è stata «abolita». Rischia, anzi, di intrappolare molte persone in una strada senza uscita.