Ipo sì. Ipo no. Le voci del possibile rilancio in borsa di Ant Group, braccio fintech del colosso cinese Alibaba, hanno momentaneamente scosso i mercati asiatici la scorsa settimana, dando speranza a chi intravedeva segnali di un allentamento delle restrizioni al settore tech nella Repubblica Popolare Cinese. Ma la pronta smentita da parte delle autorità mostrano ancora una volta che la rettificazione del digitale è un processo irreversibile. E che anche a fronte di nuove priorità per il governo, sulla rotta del tecnologico non si torna indietro.

FONTI INTERPELLATE da Bloomberg e Reuters lo davano per assodato: Pechino sarebbe stata in trattativa per rivalutare il lancio in borsa di Ant Group, indicando così un possibile rilassamento della stretta al tecnologico a partire dalla big tech divenuta simbolo del crackdown. Una concessione inaspettata per l’azienda di Jack Ma, che ancora paga lo scotto della reazione a catena cominciata a novembre 2020, quando il debutto record di 37 miliardi di dollari previsto per la quotazione sulle borse di Shanghai e di Hong Kong era stato improvvisamente bloccato. Era l’inizio della rettificazione del tecnologico e da allora il ridimensionamento di Alibaba ha portato a una perdita nel market cap (capitalizzazione di mercato) pari a 344 miliardi a fine 2021.
Le agenzie di stampa hanno parlato di una «discussione ancora nelle prime fasi» e di «via libera preliminare». Ma l’ente di supervisione delle quotazioni pubbliche di aziende cinesi, la China Securities Regulatory Commission, ha smentito la rivalutazione dell’Ipo in un lungo comunicato, dichiarando che non era stata condotta nessuna nuova valutazione su Ant Group. Subito dopo la stessa Alibaba ha sconfessato il collocamento.

EPPURE qualche segnale di rallentamento nella regolamentazione del tecnologico c’è stato. A partire dal rinnovato supporto statale per le quotazioni locali ed estere, fino alla recente dichiarazione del direttore del dipartimento di tecnologia avanzata del ministero della Scienza e Tecnologia cinese Chen Jiachang, secondo cui «le piattaforme tech giocheranno un ruolo fondamentale per raggiungere l’autosufficienza tecnologica». Lo scorso aprile il South China Morning Post parlava addirittura di «fine del crackdown tecnologico». Ma la rotta è segnata. E al timone c’è un leader che ha mostrato su più fronti di non volere fare marcia indietro. A prescindere dal costo. I dati al ribasso dell’indice tecnologico Hang Seng di Hong Kong lo confermano: solo lo scorso febbraio la combo regolamentazioni e pandemia ha portato a una perdita complessiva di 110 miliardi. E le compagnie straniere come AirBnb, Apple e Amazon continuano ad abbandonare il mercato cinese.

LA RETTIFICAZIONE del tecnologico così come immaginata dal presidente Xi Jinping è qui per restare. L’allentamento della presa sugli ex campioni nazionali è solo l’inevitabile seconda fase di un progetto di più ampio respiro: non un crackdown, ma un buildup dell’industria digitale. Il grosso del lavoro, è già stato fatto. Le linee entro cui le compagnie tecnologiche si dovranno muovere sono state tracciate. Lo «sregolato accumulo di capitale» controllato. Il reindirizzamento della forza lavoro delle big tech verso settori utili alla Cina per la competizione globale (IA, cloud computing, blockchain, semiconduttori) avviata.
Se anche in futuro dovesse esserle concesso il via libera, quella di Ant Group sarebbe un’Ipo di un’azienda mutata, regolamentata, addomesticata. Nessun cambio di rotta. Le onde della trasformazione dell’industria digitale avranno increspature progressivamente meno profonde, ma il vascello dell’economia digitale sta già viaggiando verso nuove mete.