«Rogas risale davvero fino al centro del ‘contesto’, e cioè alla trama che lega le varie parti, i meccanismi auto difensivi del potere. Industriali che finanziano, ribelli, ministri di polizia che frequentano i salotti degli oppositori, a ogni pagina c’è una sorpresa». Cito dalla recensione che Michele Rago dedica a «Il contesto» di Leonardo Sciascia, apparso allora presso Einaudi, pubblicata su «l’Unità» il 15 dicembre del 1971.

Quarantacinque anni fa. Sciascia intende dar conto della situazione civile e politica dell’Italia («un apologo sul potere») e si impegna nel metterne a punto il lessico adeguato, nel conferire senso allo specifico vocabolario che il compito richiede. Troppi sono i termini, dunque i concetti, che, allo scopo, gli paiono poco o niente adatti, la più parte consunti per l’eccessivo uso che se ne è fatto e altri che suonano, pur quotidianamente richiamati, tanto convenzionali quanto deprivati d’ogni pulsante significato.

Sciascia ricorre al termine, e al concetto, di «contesto». Commenta Rago: «Difficile definire ‘Il contesto’ una allegoria. È un’analisi spietata condotta attraverso immagini grottesche, quasi a dire che i problemi che viviamo sono incarnati in uomini, gruppi, vicende umane e possono trasformarsi nell’ingranaggio più disumano. Realtà che si tocca o che, quanto meno, si riesce a vedere nelle articolazioni nitide di un racconto che, senza esitazioni, si può dire eccezionale, se non si vuole adoperare il termine di capolavoro».

I significati della parola «contesto» convengono a «un’analisi spietata» dell’Italia. Di quarantacinque anni fa? Sì. E dell’Italia di quarantacinque anni dopo.

Descrivere l’Italia di oggi vuol dire mettere in evidenza gli elementi della sua tenuta e analizzarne le dinamiche e le componenti. Quanto regge e sostiene, quanto consolida e assicura. Contesto, allora, è concetto necessario: vale tessitura, intreccio ben allacciato d’ordito e di trama, tenace stoffa che non cede.

Con Sciascia e Rago credo preliminare questa ricognizione («interna, molto più complicata e sottile, che redistribuisce le parti nel ‘contesto’», dice Rago) di ciò che nell’Italia di oggi sta su e di come sta su.

È necessario intendere (bene e con la maggior precisione) le condizioni degli equilibri, spinte e controspinte che conferiscono saldezza, coesione. Sono le forme peculiari della stabilità italiana che vanno investigate. Ordito e trama.

[do action=”quote” autore=”Leonardo Sciascia”]«In Italia si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo»[/do]

Dell’Italia, giorno per giorno, ci vengono descritti i connotati della instabilità, della precarietà e ci forniscono, puntuali, le cronache di quanto cede, si smaglia, sprofonda.

Ma indispensabili sono i ragionamenti che si impegnano a studiare la tenuta, la saldezza e la stabilità italiane: una risultanza di strette relazioni che legano i margini di pregio alla dilagante e perseguita diffusione del degrado, congiungono legale e illegale, mischiano costantemente l’interesse privato al bene pubblico.

L’Italia come quel paese, scrive Sciascia, ove «si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo».

L’Italia, nel civile e nel politico, è un paese corrotto. La corruzione è un collante: produce una sostanza adesiva che tiene insieme, penetra e trasforma dall’interno i rapporti sociali in salde interazioni permanenti.

Lungi dall’essere uno scadimento, la corruzione è in Italia un sistema, una struttura portante.

Dunque accogliamo nel nostro lessico «contesto»: tessere insieme.

E «corruzione»: agire ciascuno la propria parte nel vincolo infrangibile che lo unisce a ciascuna e a tutte le altre.