Si dice che i bambini capiscono tutto. Non è proprio vero. Certi bambini subiscono le angherie della storia e si ritraggono spaventati, cercano un nido caldo che non trovano, chiudono gli occhi e si tappano le orecchie così pensando di far sparire la realtà.

È LA STORIA DI UN BAMBINO che vive in un paese non lontano da Trieste: terra rossa dell’Istria, mare e scogli, boschi, vigneti, campagne.
Contadini, sloveni, due maiali un asino e qualche gallina, l’orto, ippocastani e gelsi. La vecchia casa con il pozzo, le vecchie foto in divisa austroungarica, i materassi di paglia.

Una vita travolta all’improvviso dalla guerra che entra nei paesi, marcia rumorosa sul selciato e ruba e incendia gridando parole incomprensibili. Le sirene, gli aerei, le bombe. La gente cacciata di casa, i paesi incendiati, gli uomini portati via, i cadaveri lungo le strade.

Silvio ha pochi anni e guarda passare divise nere e stivali e poi altri uomini armati che costeggiano il rivo nascosti tra gli alberi. La sua paura diventa un albero di fichi dove rifugiarsi, il gatto con cui girovagare, un foglio e una matita per tracciare le linee confuse di un altro paesaggio.
Poi finisce la guerra e forse si torna ad una normalità che lui, così piccolo, non ha mai conosciuto.

Torna a casa uno zio sconosciuto con il berretto da partigiano e racconta cose inaudite del socialismo e del paese nuovo che verrà.

TORNA ANCHE IL PADRE dalla prigionia in Africa e non vuol più saperne di guerra, di armi, di divise. Una mattina, proprio a un passo da casa, compaiono garitte e una lunga sbarra che attraversa la strada e resta bassa, così, di traverso e non può passare nessuno.

Di qua i drusi, di là gli angloamericani: Jugoslavia, qui è Jugoslavia, o quasi, perché intanto si chiama Zona B. Lo zio scrive a lettere cubitali sul muro della casa «Tukaj smo Slovenci», «qui siamo sloveni», ma tutto diventa complicato, i normali spostamenti per andare al mulino o nella solita bottega diventano ripetuti passaggi ai posti di blocco, controlli, documenti da esibire, spiegazioni da dare. Il paese di Škofije è diviso a metà. La casa di Silvio è divisa a metà. E la situazione peggiora.

L’amministrazione jugoslava fa di tutto per impedire il passaggio verso il Territorio Libero di Trieste e la Zona A.
Eppure è sempre stato normale anzi necessario: le donne a svolgere qualche servizio nelle case di famiglie benestanti, gli uomini per lavorare, nei cantieri navali soprattutto.

Con il passare dei mesi la situazione diventa impossibile. Non si possono possedere lire, si pretende un cambio in dinari sfavorevolissimo, si fermano tutti per ore, la fila di gente che vorrebbe passare i due blocchi diventa insostenibile.
Gli uomini di casa lavorano tutti di là, a Muggia, in cantiere, e le inventano tutte per passare comunque e nascondere i soldi.

SILVIO COMINCIA LA SCUOLA, ha quasi sette anni ormai, e la prima elementare in Zona B vuol dire omaggiare Tito ogni mattina e credere in un futuro di pace giustizia e abbondanza.

Ma la seconda la fa in Zona A perché la famiglia si trasferisce nel paese della madre: il padre è stato condannato per le lire che ha nascosto e o rifonde il «maltolto» oppure si becca un paio di anni in un campo di lavoro. Meglio scappare.

A casa dei nonni materni, nel paese distrutto dai tedeschi ma poi ricostruito, quello abitato solo da sloveni ma rimasto nella italiana Zona A. Seconda elementare: Tito come maledizione, preti a far messa, civiltà democrazia Italia. I ragazzini del posto non lo prendono in simpatia, è un esule dopotutto, e in casa si sta stretti, troppo. Manca Škofije con le frazioni sparse sulla collina, manca una casa propria dove stare finalmente in pace.
E la casa si fa, poco lontano, in Zona A perché di là non si può tornare. Ogni domenica Silvio e suo padre mettono su i mattoni di quel sogno.

LA SBARRA CHE CHIUDE la strada sparisce, se ne vanno gli inglesi e i cerini italiani: è il 1954, il memorandum di Londra ridisegna il territorio e proprio quella parte di Zona A, proprio quel paio di chilometri e la casa quasi finita, diventa Jugoslavia. Bisogna andarsene, di nuovo, e stavolta si è profughi davvero: settimane e mesi nei campi, nelle baracche in mezzo ai tanti sbattuti di qua e di là da una maledetta guerra e un maledetto confine.

Silvio e la sua storia: autobiografia di un bambino che a ottant’anni torna nei luoghi della sua infanzia per liberare il cuore, per sciogliere i nodi di una tragedia e riconciliarsi con se stesso, gli altri, il proprio passato. («Fuori dai Confini – memorie di un bambino sulla Linea Morgan» di Silvio Pecchiari Pecaric).
Come scrive Anna Giacchetti nella prefazione: «Tutti siamo perdenti quando viene meno la ricchezza della convivenza nella diversità e veniamo divisi da confini fisici e mentali invalicabili quanto inutili».