Dopo la sentenza del Consiglio di Stato che martedì ha bocciato la proroga delle concessioni balneari voluta dal governo Meloni, Palazzo Chigi ha rotto il silenzio su un tema che sembra metterlo in difficoltà. Lo ha fatto ieri con il vicepremier Antonio Tajani che a margine di un’iniziativa elettorale in Calabria ha assicurato che «il governo sta lavorando per cercare una soluzione in dialogo con l’Ue, che non penalizzi migliaia di imprese che hanno investito». Ma sui contenuti della proposta di legge non si sa ancora nulla, seppure le concessioni siano considerate scadute lo scorso 31 dicembre e i titolari degli stabilimenti balneari si stiano preparando in questi giorni a riaprire le loro attività senza conoscere il proprio destino.

La situazione è complessa. La direttiva europea Bolkestein del 2006 impone le gare delle concessioni di spiaggia, ma negli ultimi 15 anni i governi di tutti i colori hanno rinviato l’applicazione della norma attraverso svariate proroghe. Finché, prima il Consiglio di Stato a novembre 2021, poi la Corte di giustizia europea ad aprile 2023, hanno dichiarato che le proroghe sono illegittime in quanto rappresentano dei rinnovi automatici di beni pubblici agli stessi titolari. Il governo Draghi ha fissato la scadenza delle concessioni per il 31 dicembre 2023 e imposto la loro riassegnazione tramite bandi, che dovranno essere gestiti dai comuni secondo dei criteri nazionali da stabilire con un decreto attuativo che non è stato mai approvato.

Quando era all’opposizione, Fratelli d’Italia aveva votato contro la legge di Draghi e promesso che avrebbe salvaguardato la continuità dei concessionari storici. Ma in un anno e mezzo dal suo insediamento il governo Meloni non ha fatto nulla di concreto. Con il decreto Milleproroghe 2022 ha rinviato di un altro anno la scadenza delle concessioni, pur sapendo che sarebbe andato incontro alle disapplicazioni della giustizia amministrativa: la prima pronuncia del Consiglio di Stato contro la proroga è arrivata 5 giorni dopo la sua approvazione, l’ultima lo scorso martedì. Palazzo Chigi ha inoltre portato avanti una mappatura dei litorali, dichiarando che solo il 33% delle coste italiane è occupato da concessioni.

La sua tesi è che sarebbe possibile garantire la concorrenza richiesta dall’Ue facendo avviare nuove imprese in aree libere e senza toccare quelle esistenti, poiché la Bolkestein prevede le gare solo in caso di «scarsità della risorsa naturale». Ma la mappatura è stata conclusa lo scorso ottobre e da allora non è stato presentato nessun ddl che applicasse questa idea in una legge. Nel frattempo, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per il mancato rispetto della Bolkestein e ha contestato la mappatura del governo, chiedendo un’analisi qualitativa anziché quantitativa (in sostanza, che distingua le spiagge sabbiose ed effettivamente concedibili dalle coste rocciose e inaccessibili).

Con l’avvicinarsi della scadenza delle concessioni e dal momento che un’evidenza pubblica non si fa in pochi giorni, alcuni comuni hanno già concluso le gare e molti altri si stanno apprestando a farlo. Ma in assenza del decreto attuativo previsto, ogni amministrazione locale sta scrivendo i bandi a propria discrezione, col rischio che sul demanio statale si generino enormi disparità sugli indennizzi ai concessionari uscenti, scarsa trasparenza sui criteri di selezione, illeciti e ricorsi. Non decidendo nulla, il governo Meloni di fatto sta accettando le gare che aveva promesso di impedire, e sta consentendo che avvengano in maniera incontrollata.