La coinvolgente testimonianza di Luciana Castellina, il suo contagioso entusiasmo per questa vittoria della Sinistra cilena (con la S maiuscola), mi hanno riportato indietro nel tempo e fatto venire voglia di raccontare della grande manifestazione che precedette la cacciata di Pinochet.

Va ricordato che il dittatore fu disarcionato dal potere, ma non espulso dal paese o condannato, grazie ad un referendum popolare che il governo Usa gli aveva imposto, dandogli ampie garanzie di impunità.

Il giorno prima della chiusura della campagna referendaria il movimento popolare organizzò una manifestazione a Santiago a cui presero parte più di un milione di persone. La sera prima, con i compagni italiani che erano a Santiago in veste di cooperanti, di fatto per sostenere l’opposizione al dittatore, ci riunimmo per decidere come partecipare a questa manifestazione.

Alla riunione presero parte attiva alcune compagne e compagni cileni, tra cui Antonia e Fernando Lara, che da quella sera divennero nostri inseparabili amici. Sarà per la presenza mia, di Piero Polimeni e di Antonella Giunta del Cric (una Ong del Sud molto attiva in quegli anni), nonché di altri compagni meridionali, dopo una lunga discussione decidemmo che avremmo marciato sotto uno striscione con scritto “Italia con Chile contra Mafia y Pinochet”.

Oggi può sembrare strano ma allora, specie nel Mezzogiorno, la lotta alle mafie era diventata una priorità: l’oppressione mafiosa da Palermo a Napoli a Reggio Calabria (dove dal 1985 al 1992 morirono per mano della ‘ndrangheta più di 700 persone) era percepita come una vera e propria dittatura.

Eravamo tutti molto emozionati e anche, bisogna ammetterlo, angosciati. Giungevano notizie di attentati fascisti in diverse parti del paese e fino alla fine molti pensavano che Pinochet avrebbe trovato un alibi per bloccare il referendum. Ma l’indomani, sotto un sole gagliardo, con fiumi di compagne e compagni che arrivavano a Santiago con ogni mezzo, con i loro canti e slogan che trasmettevano una energia incredibile, anche noi ci mettemmo a urlare “Nunca mas”! “Nunca mas”! per ore ed ore.

Mentre sfilavamo con il nostro grande striscione venivamo applauditi da ali di folla che continuava ad arrivare e dai balconi ci salutavano con “W Italia”.

Per chi non ha vissuto quella fase della storia italiana è difficile spiegare quale legame profondo ci legasse al movimento antifascista cileno. Basti solo pensare che nel nostro paese vennero ospitati circa 11.000 rifugiati politici cileni. Ma, soprattutto, avevamo scampato in circostanze ancora misteriose un golpe militare, eravamo in pena stagione delle stragi di Stato, e il pericolo di una svolta autoritaria era tutt’altro che remoto.

Non solo. Il Cile è stato il primo posto al mondo in cui si era sperimentato, sotto Pinochet e la regia dei Chicago boys di Milton Friedman, il modello neoliberista portato alle estreme conseguenze. Un modello autoritario che in pochi anni fece gridare al miracolo cileno, a chi guarda il Pil come solo indicatore del successo di un paese, e faceva gridare di dolore milioni di cileni impoveriti, super sfruttati, privati dei servizi pubblici essenziali, nonché di ogni forma di libera espressione.

Come dimenticare che la privatizzazione del trasporto pubblico, della sanità, dell’istruzione, portò in pochi anni ad un regresso vistoso sul piano sociale e culturale il popolo più avanzato dell’America Latina. Come dimenticare gli autisti degli autobus che venivano pagati in base ai chilometri che percorrevano e si erano trasformati in veri e propri killer, o i farmacisti che si facevano una concorrenza spietata sui farmaci con le vetrine che offrivano tre confezioni di antibiotici al prezzo di una o in regalo un pacco di aspirine.

Ma l’effetto più grave della dittatura neoliberista è stato il lavaggio del cervello.

Ricordo come fosse ieri la prima volta che arrivai a Santiago nel novembre del 1983. L’autista che mi portava dall’aeroporto alla pensione alla mia domanda “è molto che fa questo mestiere?”, mi rispose : «No. Solo due anni. Prima lavoravo in banca, ma ero un lavoratore superfluo, inutile, e sono stato giustamente licenziato. Allora ho cercato un lavoro ed ho trovato questo».

Per tutte queste ragioni oggi sentiamo la vittoria di Gabriel Boric un po’ anche la nostra, nel senso che ci dà una speranza quando, come nella fase che stiamo vivendo, è diventato così difficile sognare.