Sarebbe interessante capire il ragionamento che ha spinto la direzione artistica della Mostra a scegliere per l’apertura in sostituzione di The Challenger – il nuovo film di Luca Guadagnino cancellato dagli scioperi a Hollywood – Comandante di Edoardo De Angelis. Certo è un film italiano, uno dei sei del concorso, e con un protagonista, Pierfrancesco Favino, che ha una riconoscibilità internazionale. Ma questo può bastare a motivare la scelta? Non è che De Angelis sia proprio un gran regista, anzi, anche se qui forse grazie a una produzione più attenta sembra essere riuscito a smussare l’abituale grossolanità che caratterizza i suoi film da Perez a Indivisibili a Il vizio della speranza.

IL PROBLEMA è però che né lui né il coautore della sceneggiatura (insieme allo stesso de Angelis) Sandro Veronesi mostrano la coerenza di stile e di lettura necessari per affrontare il racconto che si sono dati. Ovvero la figura di Salvatore Todaro, comandante della Regia marina morto trentaquatrenne in battaglia nel 1942. Alla guida del sommergibile Cappellini, salpato nel 1940 dal porto di La Spezia e diretto alla nuova base dei sommergibili italiani a Bordeaux, affondò dopo dodici giorni di navigazione una nave belga, la Kabalo – il Belgio era ancora neutrale ma si scoprì poi che il piroscafo trasportava materiale bellico per gli inglesi. Todaro mise in salvo i 26 uomini dell’equipaggio portandoli nel primo porto sicuro alle Azzorre. Per farlo navigò tre giorni allo scoperto col rischio di essere affondato dagli inglesi, che in effetti lo attaccarono, ma saputo che trasportava anche i superstiti della Kabalo lo fecero passare. Non fu mica un impulso pacifista – infatti Todaro poi passò alla X Flottiglia Mas – ma la legge del mare che impone di salvare chi è in difficoltà era per lui sacra.

A PARTIRE dalla vicenda storica De Angelis (e Veronesi) costruiscono la propria narrazione immergendosi senza troppo problematizzare il contesto – che ricordiamo è quello del fascismo – nell’universo del loro eroe (Favino) il cui punto di vista sul mondo appare sempre un po’ sfocato, col tempo che si accartoccia nei suoi monologhi interiori forse per effetto della morfina che prende in modo da sopportare i terribili dolori alla schiena distrutta qualche anno prima in un incidente (ma i fumi oppiacei di C’era una volta in America sono ben altra cosa e non basta un fischiettìo a evocarli).

La redazione consiglia:
«Il colibrì», storia di un uomo perbene e di un’esistenza che gira in tondo Non ha ceduto allora al sogno della moglie di una vita in campagna a fare il miele e a occuparsi dei figli, lui come ogni vero uomo ama l’arte della guerra, un po’ dannunziano, un po’ nietzschiano, un po’ uomo e macchina di marinettiana memoria oltre a quel bagaglio tipico del fascistello di filosofie orientali, cabale, esoterismi – nel suo caso la passione per il greco antico, la lingua di un biglietto che un misterioso sarto gli consegna come segno del suo destino di combattente. Del resto se il «fascismo è dolore» la felicità è stordimento. E quindi eccolo questo Comandante che ha pure il dono di intuire il futuro – compresa la propria morte – salire sul sottomarino non così moderno ma scassato per una non ben chiara missione nell’Atlantico, oltre lo stretto di Gibilterra che è il «buco del culo di una gallina». A bordo uomini forse stanchi, sul molo a piangerli le giovani crocerossine con cui hanno fatto l’amore la notte – le altre ragazze «perbene» stanno a casa quell’ora. E a proposito conforta questa visione del femminile espressa peraltro con puntualità nella figura della moglie del Comandante, tetta di fuori, quasi sempre muta, il tanga in vista sotto al vestito di seta lucido mentre suona il piano, il sogno del bebè e inquadrature che vorrebbero essere voluttuose dei due nella vasca da bagno tra giochi di specchi e rimandi a tanto altro – compreso un po’ di Cavani Leone d’oro alla carriera. Tutto si tiene…

Nell’abitacolo stretto sotto al mare i marinai convivono, litigano, si respirano, hanno paura e quando si spara qualcuno muore come capita in guerra. Il cuoco fa piatti buoni, poi man mano che le provviste finiscono li fa solo immaginare recitandone i nomi come in una litania, e intanto il Comandante è sempre più stanco, l’astinenza lo divora – sarà questo a dargli altre prospettive sul mondo? Vedendo quei nemici decide di salvarli in nome appunto della legge del mare, e quando il capitano belga gli chiede perché li ha soccorsi mentre lui li avrebbe senz’altro lasciati morire la risposta di Todaro è «perché sono italiano» – e ho duemila anni di storia alle spalle.

ECCOCI QUA, italiani brava gente, questa retorica insopportabile specie oggi che ha accompagnato anni e anni di commedie, di farse sui colonialismi buoni, di auto-assoluzioni che sì, vabbè si è stati fascisti ma mica cattivi come i tedeschi. Peraltro la parola fascista, a parte da chi in quel bell’idillio osa ribellarsi – e per questo viene picchiato dagli uni e dagli altri, ma come hanno osato a fronte di tanta bontà? – quasi mai viene pronunciata dal comandante e dai suoi uomini. Cosa ci vogliono dire allora de Angelis e Veronesi? Che la legge del mare è antica, sacra e imprescindibile e che persino in guerra tra i fascisti c’è chi l’ha rispettata? È un messaggio al governo Meloni e ai suoi proclami sui respingimenti contro i migranti di adesso? Però la storia è storia e invece che fabbricare santini a effetto nella distanza temporale sarebbe bene mantenere un po’ di onestà intellettuale perché il passo falso è in agguato – qui direi è già scattato – insieme alle infinite ambiguità di offrire sponde – e ce ne sono numerose – per autocelebrazioni e strizzate d’occhio ai poteri «nuovi» di cui non si sente proprio il bisogno.

Non basta cullarsi tra droni e meduse che sembrano sirenette; De Angelis non va mai in profondità e quegli spazi, qui corpi sott’acqua, quei nemici che poi si sfioreranno con odio appaiono privi di spessore. Eppure nelle sue intenzioni in quel sottomarino c’è l’Italia, «si fa» l’Italia delle diverse regioni e dialetti che imparano a convivere – anche questo – grazie alla guerra, all’idea comune, all’allenamento al sacrificio. È ancora legge del mare o è qualcos’altro?

Tra accumuli di citazioni casuali, il suo sottomarino non si rifa a esempi importanti come Gli uomini sul fondo (1941)di De Robertis – Rossellini ma neppure stilisticamente al K-19 di Bigelow. La patina di cui ammanta la visione distorta del protagonista è compiaciuta, priva di un punto di vista, accarezza quell’essere, quelle modalità, si culla negli stereotipi: pasta-pizza-mandolino (e patatine fritte per i belgi) che si fanno convivenza. Sarà questo effetto cartolina a avere determinato la scelta? Resta il fatto che oggi risulta goffa nel suo effetto finale malgrado le «buone intenzioni. E appellarsi genericamente alla «legge del mare» non basta. Non più.