Emmenalgia. «Da Emméno, un verbo greco che significa ‘rimango saldo’, ‘persevero’, ‘continuo strenuamente’. Un senso di struggimento malinconico per il desiderio di voler continuare a oltranza. Un verbo insidioso, però. Perché emméno significa anche “sottrarre alle leggi, alle decisioni di altri”».

QUESTA, tratta dal libro Lui, io, noi! (Einaudi) dedicato all’assenza di Fabrizio De André da Dori Ghezzi con due linguisti, Giordano Meacci e Francesca Serafini, è la spiegazione de Il colibrì, che emerge dall’avvincente romanzo di Sandro Veronesi (la nave di Teseo). Il colibrì, il piccolo volatile che agita disperatamente le sue ali per rimanere immobile. Questo è anche il soprannome di Marco Carrera protagonista del racconto. Un racconto fatto di drammi, tragedie, amicizie e amori, sbagliati o non consumati, praticamente la vita di un uomo che parte da quand’era bambino, lo segue da adolescente, poi da adulto, padre, nonno, infine malato. La vita segue un suo percorso temporale, i ricordi no, si affastellano, uno richiama l’altro, la cronologia si fa confusa a scapito della linearità, ma aiuta a fare chiarezza nel comprendere un personaggio, lo aveva fatto già magnificamente Sergio Leone con C’era una volta in America. Premesso che era impossibile restituire grandezza, complessità e riferimenti che arricchiscono il testo scritto (ovviamente è anche saltata la citazione del «manifesto» attraverso un articolo di Marco D’Eramo a proposito di una mostra sugli aztechi), ci sono alcune scelte che suonano strane. Uno dei brani musicali citati nel libro è di origine ungherese, di László Jávor su musica di Rezsö Seress, struggente canzone sul suicidio, accusata di ingenerare tristezza (il musicista si è davvero suicidato anni dopo) ma reinterpretata da molti sotto diversi cieli, compresa una emozionante versione di Billie Holiday, sparita nel film per fare posto a I’ll Be Seeing You della stessa Holiday. Naturale che la versione cinematografica di un romanzo lo «tradisca», qui però siamo di fronte a qualcosa di meno nobile perché i tradimenti sembrano voler puntare alla pancia dello spettatore, pur senza apparentemente scostarsi dall’originale.

NON SI PUÒ e non si deve entrare nei dettagli perché si rovinerebbe la visione, e la versione cinematografica ha però in queste varianti un grande pregio: fa venire voglia di leggere o rileggere il libro di Veronesi (che appare anche in un cameo accanto a Laura Morante). E qui va detto che ci sono almeno due pilastri che permettono al film di reggere: Pierfrancesco Favino e Nanni Moretti. Favino è davvero eccelso come protagonista, il suo Marco Carrera è un uomo onesto, un uomo perbene, un uomo Probo, come il nome di suo padre (che ci sia di nuovo lo zampino De André), con un destino che gli combina una quantità di scherzi di pessimo gusto che lui cerca di fronteggiare come può e come sa, anche grazie ai consigli di Daniele Carradori, l’analista che ha tra i pazienti la moglie di Marco e che rompe i dettami dell’etica professionale, presentandosi a lui per parlarne. Carradori è una delle figure più riuscite anche grazie a Nanni Moretti che ci mette del suo in questo rapporto di apparente distacco che lo vede invece profondamente coinvolto sino alla fine. Gli altri interpreti sono più defilati nonostante la presenza insistente da Kasia Smutniak moglie instabile a Bérénice Bejo amore mai vissuto, da Laura Morante madre antipatica a Sergio Albelli padre succube, sino a un inconsueto Massimo Ceccherini iettatore e Rausy Giangarè nipote e motore finale dell’esistenza del nonno. Francesca Archibugi cura la regia, forse pensando al successo di quel lontano ricordo italofrancese di Mignon è partita, qui rievocato dall’intenso rapporto tra Marco e il suo amore idealizzato per la parigina Luisa, coadiuvata nella sceneggiatura da Laura Paolucci e Francesco Piccolo chiamati a un compito davvero arduo e quasi impossibile.