Fin dall’avvento della sua presidenza, il presidente colombiano Gustavo Petro sapeva benissimo che l’oligarchia non lo avrebbe lasciato respirare. Dopotutto, la storia recente dell’America latina dimostra in abbondanza come la conquista del governo non coincida affatto con la conquista del potere. Tuttavia, quello che sta subendo il presidente in Colombia è davvero un assedio implacabile, tra il Congresso che affossa una dopo l’altra tutte le riforme chiave del suo governo, i mezzi di comunicazione che fanno a gara a criticare ogni sua mossa e il potere giudiziario che mette in scena l’ennesimo caso di lawfare.

Con la formulazione di un capo di imputazione da parte di due magistrati del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Álvaro Hernán Prada e Benjamín Ortiz, è infatti iniziata ufficialmente contro Petro l’indagine per presunte irregolarità nel finanziamento della sua campagna elettorale, benché non fosse mai accaduto che un’istanza amministrativa come il Cne intervenisse contro un presidente in carica.

Al di là dell’arresto del suo figlio maggiore per riciclaggio e arricchimento illecito – una vicenda tanto imbarazzante quanto dolorosa, ma a cui il presidente è estraneo -, sotto il mirino dei magistrati c’è in particolare il contributo versato al suo partito Colombia Humana dal Fecode, il sindacato degli insegnanti: una presa in giro, a fronte dei fiumi di denaro proveniente dal narcotraffico e dalle grandi imprese e finito nelle tasche dei suoi predecessori. È un “golpe blando”, ha assicurato Petro, esortando le forze sociali a rispondere al «tentativo di calpestare la volontà popolare»: un invito tradottosi nelle imponenti mobilitazioni del primo maggio, in risposta alle proteste, in realtà non meno massicce, a cui le opposizioni avevano dato vita appena dieci giorni prima.

«Voi lo vedete – si era rivolto alla folla l’1 maggio – che muoviamo un piede e interviene la Procura, che presentiamo un progetto di legge e in due anni non lo votano, non lo discutono, non l’approvano. Ma fin dove è possibile bisogna avanzare, rimuovendo gli ostacoli, con coraggio».

E in effetti, benché il presidente sia riuscito a realizzare alcune politiche a favore tanto degli interessi popolari quanto dell’ambiente e della decarbonizzazione dell’economia, a sostituire in parte i vertici delle forze armate e a ottenere che alla guida della Procura generale, al posto dell’uribista di ferro e suo acerrimo nemico Francisco Barbosa, venisse eletta una figura a lui più favorevole, l’avvocata esperta di diritti umani Luz Adriana Camargo, si perde il conto delle misure governative bocciate dagli altri poteri dello stato.

Ce n’è per tutti i gusti: dal decreto di emergenza per far fronte alla prolungata crisi economica, sociale e ambientale a La Guajira (regione, al confine con il Venezuela, conosciuta per l’alto livello di povertà e denutrizione del popolo indigeno wayuu) fino ai tagli alle bollette dell’energia elettrica, passando per l’articolo della riforma tributaria diretto ad aumentare le royalties petrolifere per finanziare le politiche sociali, senza contare la soppressione per vizio di forma, a partire dal 2026, del Ministero per l’Uguaglianza – quasi un simbolo della nuova amministrazione -, presieduto dalla vicepresidente Francia Márquez. E intanto restano bloccate le riforme più ambiziose del programma elettorale di Petro: quella del lavoro («l’élite colombiana ha nostalgia della schiavitù», ha denunciato), quella della salute (l’attuale sistema sanitario, ha detto, ha fatto più vittime del conflitto armato interno) e quella delle pensioni (trasformate in «un affare per le banche»).

Nel tentativo di uscire dall’angolo, Petro ha lanciato la proposta di un’Assemblea Costituente: «Se le istituzioni che abbiamo oggi in Colombia non sono in grado di essere all’altezza delle riforme sociali che il popolo ha decretato con il suo voto allora la Colombia dovrà affidarsi a un’Assemblea nazionale costituente». E la proposta, benché generica, ha pure ricevuto l’appoggio dell’ex capo negoziatore delle Farc Iván Márquez, il quale, tornato a imbracciare il fucile di fronte al tradimento dell’accordo di pace da parte dello stato, è oggi a capo dell’organizzazione guerrigliera Segunda Marquetalia.

A lungo dato per morto, il leader guerrigliero è riapparso a sorpresa in un video in cui ha esortato a individuare un meccanismo democratico attraverso cui dare voce ai diversi settori sociali e politici, contro gli interessi delle oligarchie e delle transnazionali: «In un momento in cui, grazie alla Divina Provvidenza e all’idea geniale di un presidente, soffiano venti costituenti, risvegliando la speranza di immense moltitudini, nessuno dovrebbe rimanere a braccia conserte».

Una dichiarazione, quella di Márquez, che cade in un periodo assai difficile per l’ambizioso progetto di “pace totale” perseguito dal governo: il negoziato con l’Eln (Esercito di liberazione nazionale) è in stallo, il processo di dialogo con l’organizzazione paramilitare Clan del Golfo, con la Segunda Marquetalia e con lo Stato maggiore centrale (altro gruppo di dissidenti delle Farc) non decolla, il paramilitarismo è in crescita e prosegue la strage di leader sociali (più di 60 quelli uccisi dall’inizio dell’anno) e di ex combattenti (13 le vittime da gennaio a maggio). Di fiducia, tra le organizzazioni guerrigliere, ve n’è pochissima: se l’accordo del 2016 tra le Farc e il governo di Juan Manuel Santos è stato così clamorosamente disatteso, chi può garantire che un nuovo accordo sopravviva a un eventuale ritorno delle destre alla presidenza?

Lo stesso Petro lo ha riconosciuto: «dovrò andare all’Onu a dire che la Colombia non sta rispettando l’accordo di pace», a causa degli ostacoli posti dal Congresso e dal potere giudiziario in relazione alla riforma agraria, agli investimenti pubblici sui territori, all’amnistia per gli ex combattenti. E ha avvertito: «Se non rispettiamo quello che abbiamo firmato, ciò che accadrà sarà spargimento di sangue e ulteriore violenza su altra scala e in altre forme».