Atto di nascita ieri a Barcellona di Un país en comú (Un paese in comune), il nuovo partito che riunisce la sinistra catalana, la creatura politica fortissimamente voluta dalla leader incontrastata Ada Colau. Dopo mesi di intensi dibattiti, più di 5000 persone hanno eletto con le primarie la guida del nuovo partito, Xavier Domènech, attuale deputato nel Congresso di Madrid, nonché fidatissimo di Colau.

La nuova formazione, ispirandosi al modello che aveva portato Colau a vincere le elezioni a Barcellona e Domènech a certificarsi come prima forza catalana nelle ultime elezioni politiche, agglutina tutte le forze della sinistra non indipendentista alla sinistra dei socialisti: i verdi di Icv, Esquerra Unida (Izquierda unida catalana), e vari pezzi della società civile.

L’idea era che entrasse anche Podem, la marca catalana di Podemos, ma all’ultimo momento il nuovo segretario Albano-Dante Fachín si è tirato indietro. Una mossa che ha spiazzato molti podemitas, e la stessa direzione del partito a Madrid, che punta da sempre su Colau e Domènech come modello a seguire.

Al padiglione della Vall d’Hebron dove erano riuniti i militanti e i vertici del nuovo partito sono passati Alberto Garzón di Izquierda Unida, la vicepresidente valenziana Mónica Oltra (esponente di una coalizione analoga a Valencia), ma Pablo Iglesias, anche lui invitato, ha fatto arrivare solo un videomessaggio (è passato invece in serata il numero 3 di Podemos, Pablo Echenique, accolto al grido di «unità, unità»).

La posizione di Iglesias è complicata: Podemos non può permettersi di screditare la sua marca catalana perché il partito si è impegnato a rispettare l’autonomia politica delle federazioni locali. Ma ha anche lanciato un chiaro messaggio: «Non ho dubbi che continueremo a camminare uniti».

D’altra parte, esponenti chiave del partito viola in Catalogna, in aperto dissenso con Fachín, hanno partecipato alle primarie e sono stati eletti negli organi collegiali. Fra di loro Marc Bartomeu, che aveva disputato a Fachín la segreteria di Podem, e l’attuale deputata nel Parlament di Barcellona, Jessica Albiach.

Grande aspettativa per la posizione che l’assemblea di ieri avrebbe assunto rispetto al movimento indipendentista a pochi mesi dalla prova di forza che il governo catalano vuole dare con il secondo referendum di indipendenza (dopo che quello del 2014 venne bloccato da Madrid). Si è imposta la posizione di Domènech, che difende «la creazione in Catalogna di una repubblica sociale, democratica e ambientalmente giusta», che «vuole condividere la sovranità» con uno stato «plurinazionale». Una formula intermedia che tenta, ancora una volta, di rompere il dualismo che tanto comodo fa agli attuali governi catalano e spagnolo fra «indipendenza» e «centralismo assoluto».

L’assemblea ha anche approvato varie mozioni a favore dell’eutanasia e della morte degna, sui referendum come strumenti vincolanti di decisione e per revocare cariche pubbliche, del reddito di cittadinanza.

Approvata anche una mozione contro la Nato, che punta a un sistema europeo di difesa autonomo dagli Usa.

Via libera poi a uno stringente codice etico, con limiti di mandato, limite dell’indennità degli eletti, regole per la sospensione dagli incarichi dei condannati, e con il divieto per la nuova formazione di finanziarsi con crediti bancari e che soprattutto stabilisce che il nuovo partito non erediterà i debiti delle formazioni che ne fanno parte. Tutte norme che il partito di Colau applica già a Barcellona, come anche quella di rendere pubbliche le agende degli incontri degli eletti. Altra regola introdotta dal nuovo partito è che tutti gli organi devono essere paritari e che nelle liste elettorali il 60% della rappresentanza deve essere garantito alle donne. (lu.ta.ba)